L’uccisione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, segna un punto di svolta nel conflitto in Medio Oriente. In primo luogo, perché rivela quello che molti ormai sospettavano: il piano strategico di Israele del post-7 ottobre non si limita alla Palestina e alla distruzione di Hamas, artefice degli attacchi, ma è molto più ampio e investe l’ambito regionale. Si tratta di un piano che ha come obiettivo un “nuovo ordine” – non a caso questo è il nome dell’ultima operazione israeliana – in cui l’Iran e la rete dei movimenti ad esso affiliati vengono indeboliti nella loro capacità di coordinamento e azione, grazie a operazioni mirate a decimare generazioni di militanti affiliati alla Repubblica Islamica. In questo “nuovo ordine” rientra anche l’aspettativa che i successi militari contro l’Iran e i suoi alleati finiscano per indurre le Monarchie del Golfo, e in particolare l’Arabia Saudita, a cedere, senza riserve, alla normalizzazione dei loro rapporti con Israele. La superiorità militare dello stato ebraico dovrebbe quindi consolidare l’alleanza Israele-Golfo contro l’Iran. Non sorprende, dunque, il commento di Jared Kuchner, genero di Donald Trump, che ha definito il 27 settembre, data dell’uccisione di Nasrallah, come il momento di svolta più importante dalla sottoscrizione degli Accordi di Abramo, da lui stesso facilitati qualche anno fa.
Tuttavia, questo “nuovo ordine“, che molti presentano come la panacea ai mali del Medio Oriente, presenta non pochi punti d’ombra. Primo fra tutti, si tratta di un ordine in cui gli imperativi della sicurezza nazionale di un paese prevaricano qualsiasi norma di diritto internazionale. Gli attacchi israeliani a Beirut non hanno colpito solo militanti di Hezbollah ma anche civili (oltre cento morti nell’ultimo attacco), costringendo molti ad abbandonare le loro case e terrorizzando il resto della popolazione. A questo bilancio si aggiunge quello, ancora più terribile, delle 41.000 vittime palestinesi in un anno di guerra a Gaza. Non vi sono dubbi sul fatto che Israele sia determinato a perseverare in questa dura strategia militare, anche a rischio di mettere a repentaglio i negoziati sul rilascio degli stessi ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Quello che possiamo aspettarci è un disordine, più che un ordine: una sequela di attacchi su obiettivi pro-iraniani, che non si farà alcuno scrupolo a provocare, come “effetto collaterale”, vittime civili.
Secondariamente, in questo ordine, la questione palestinese viene svuotata della sua rilevanza storica, sociale e geopolitica. La diplomazia del do ut des tra Israele e Monarchie del Golfo, fondata sulla convergenza di interessi delle classi dirigenti, si appresta a chiudere un capitolo di storia e aprirne un altro in cui la Palestina scompare. Con essa scompare anche la giustizia, mettendo a tacere le voci di generazioni di arabi, ebrei e giovani di tutto il mondo che continuano a sostenerla. È un’idea non solo difficilmente praticabile, ma anche pericolosa. Le Monarchie del Golfo, sebbene felici di vedere una Repubblica Islamica d’Iran indebolita, vogliono (anche per questioni strettamente geografiche) mantenere relazioni con Teheran e temono che le azioni di Israele possano portare più caos che ordine nella regione. Difficilmente procederanno a sottoscrivere la normalizzazione con Israele se quest’ultimo continuerà a insistere su una strategia di aggressione preventiva, senza dare alcun segnale di compromesso verso la soluzione dei due stati.
Inoltre, è pericoloso pensare che un ordine regionale dominato da regimi autoritari, semi-autoritari o democrazie in declino (come quella israeliana) possa funzionare nel lungo periodo senza provocare scontento e proteste soprattutto delle nuove generazioni. Il modello proposto punta, in definitiva, sull’autoritarismo delle classi dirigenti come strategia vincente per la gestione delle crisi. Un modello del resto non molto diverso da quello della Russia di Putin, con cui l’Occidente è in guerra. Come europei, dobbiamo essere consapevoli che nella nostra posizione verso Israele è in gioco molto più della distruzione dell’asse che fa capo a Teheran o l’assetto del Medio Oriente. In ballo c’è la nostra capacità di scegliere tra conflitto e coesistenza, tra democrazia e tecno-autocrazie, tra impegno politico e nichilismo delle nuove generazioni. Si tratta di scegliere in che mondo vogliamo vivere. Questa è la riflessione che deve preoccupare noi e i nostri politici.