L’assassinio di Nasrallah e le incognite sul futuro del Medio Oriente: Israele, Iran e il nuovo equilibrio regionale

L’uccisione del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah da parte di Israele offre l’occasione per trarre alcune conclusioni, necessariamente preliminari, su quanto sta accadendo nel Vicino Oriente e allo stesso tempo sollevare alcune questioni sul fosco futuro di quell’area.

La prima considerazione riguarda la determinazione del governo israeliano di infliggere quanto più danno possibile all’Iran e alla rete di suoi alleati in Libano, Siria, Iraq, Yemen e Palestina. Di questi, Hezbollah è di gran lunga il più importante. La relazione con l’Iran risale ai primi anni ’80, quando Hezbollah si formò in reazione alla brutale invasione israeliana del Libano. Hezbollah è anche la milizia pro-iraniana meglio armata – sostiene di contare su centomila combattenti (ma probabilmente sono meno della metà) e sembra disponga di circa 120-200 mila razzi e missili balistici. È anche quello con più esperienza di lotta, avendo resistito alla seconda invasione israeliana del Libano nel 2006 e poi sostenuto per anni il regime siriano nella sanguinosa repressione dell’opposizione. Soprattutto però Hezbollah controlla(va) il sud del Libano, dal quale poteva esercitare pressione e deterrenza su Israele.

Questa capacità è venuta meno visto che negli ultimi due mesi Israele ha eliminato quasi tutta la leadership di Hezbollah, colpito migliaia di obiettivi militari (essenzialmente depositi o postazioni di lancio di missili) e fatto esplodere migliaia di cercapersone e walkie-talkie in dotazione dei miliziani, mutilandone a migliaia. Se a questo si aggiunge l’assassinio del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, il quadro è quello di un Iran frastornato e senza opzioni valide di risposta. Estendendo a dismisura l’argomento dell’auto-difesa, Israele non ha remore nel colpire i suoi nemici anche se questo comporta indiscriminate stragi di civili, com’è il caso a Gaza (41000 morti, di cui 16500 bambini, e 1,9 milioni di sfollati) e ora anche in Libano (più di mille morti e un milione di sfollati in una settimana).

La seconda conclusione riguarda l’estrema debolezza dell’Amministrazione Biden. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato l’attacco di Beirut mentre era a New York per l’Assemblea Generale dell’Onu, dove peraltro ha liquidato tutti i suoi critici come antisemiti (come da prassi nella retorica governativa e in generale di chi sostiene il progetto sionista). Parlando di fronte a quello stesso consesso, il presidente Usa Joe Biden aveva invocato la necessità di un cessate-il-fuoco a Gaza di una de-escalation in Libano. Usa e Francia avevano anzi frettolosamente messo insieme una proposta di tregua, che Netanyahu ha prontamente ignorato.

Si tratta dell’ennesimo episodio in cui Israele agisce in senso contrario a quanto caldeggiato dall’Amministrazione Biden e i suoi alleati europei, che da mesi spingono per un cessate-il-fuoco a Gaza, la liberazione degli ostaggi e il contenimento dell’escalation regionale. Netanyahu non si fa problemi perché la risposta dell’Amministrazione Biden è solitamente quella di protestare ‘ignoranza’ rispetto alle mosse di Israele e poi concordarvi ex post, com’è stato il caso anche per l’assassinio di Nasrallah. Nonostante la supposta frustrazione nei confronti di Netanyahu, Biden ha continuato a dare a Israele copertura diplomatica e miliardi di dollari in armi. Senza appoggio americano, diretto, indiretto o semplicemente passivo, Israele non si sarebbe mai lanciato in piani tanto ambiziosi.

Le conseguenze dell’assassinio di Nasrallah

Venendo ora alle questioni che l’assassinio di Nasrallah lascia aperte, la prima riguarda la situazione in Libano. Hezbollah è senza leadership e con un sistema di comunicazioni compromesso, però continua a contare su migliaia di aderenti e può quindi riorganizzarsi. Per prevenire questa eventualità, Israele può lanciare un’invasione di terra che lo porti nuovamente a controllare il territorio compreso fra il confine e il fiume Litani, qualche centinaio di chilometri a nord, in modo da mettere definitivamente in sicurezza gli abitanti di Israele settentrionale. Se l’offensiva di terra possa raggiungere questo obiettivo resta incerto. Dopotutto, un anno di operazioni militari ultra-intensive a Gaza non è servito a estirpare Hamas, un’organizzazione più debole e isolata di Hezbollah. Qualunque sia l’esito, l’invasione di terra avrebbe comunque un alto costo umano.

L’altra questione aperta riguarda la risposta dell’Iran. Vista la centralità del network di alleanze nella regione che Teheran chiama l’‘asse della resistenza’, la decimazione di Hamas e soprattutto l’indebolimento di Hezbollah implica una sostanziale riduzione dell’influenza iraniana nel Levante. Ci si è chiesti nei mesi scorsi come mai la Repubblica islamica, che ad aprile si era spinta a lanciare un attacco missilistico contro Israele in risposta al bombardamento israeliano del consolato iraniano di Damasco, sia rimasta inattiva negli ultimi mesi.

Un’ipotesi è che con un nuovo presidente che proviene dall’area riformista, Masoud Pezeshkian, l’Iran si fosse deciso per una forma di ‘pazienza strategica’, ovvero evitare l’escalation e lasciare che le uccisioni indiscriminate a Gaza ma anche in Cisgiordania e poi quest’altro attacco in Libano contribuissero a creare un fronte internazionale che ponesse freni a Israele. Se questa è la strategia, chiaramente non sta funzionando. Il governo israeliano, e in particolare Netanyahu, ha tutto l’interesse a continuare le operazioni militari e anzi a sfidare l’Iran a intervenire.

Per Netanyahu l’attacco al nord è vantaggioso sotto ogni rispetto: ha ristabilito la sua reputazione compromessa dal 7 ottobre, ha apparentemente rimosso una minaccia diretta a Israele, ha allargato la sua coalizione di governo in modo da renderlo meno dipendente dai suoi alleati estremisti e apertamente espansionisti. Un attacco diretto contro l’Iran completerebbe il quadro. Per l’Iran colpire Israele direttamente è un’opzione estremamente pericolosa, anche perché per Biden sarebbe difficile non unirsi alla risposta israeliana. Difficile quindi che a Teheran scelgano questa strada.

Un’altra opzione è rilanciare sul programma nucleare, abbandonando ogni pretesa che sia civile. Ma Netanyahu ha già detto che le centrali nucleari iraniane sono nel mirino, e gli Stati Uniti – la cui politica è quella di prevenire un Iran nucleare a tutti i costi – avrebbero una motivazione facile da vendere al pubblico per unirsi ai bombardamenti.

L’opzione più realistica per l’Iran è quella di incassare e cominciare a riorganizzare e rafforzare la sua rete di alleanze, a partire da Hezbollah stesso. Ma bisogna considerare che Israele potrebbe non concedergli questa chance. Uno scontro diretto, per quanto improbabile, non è quindi per niente da escludere. L’odore del sangue di una vittoria completa potrebbe essere irresistibile per Netanyahu.

Il futuro di Gaza e delle dinamiche regionali

L’ultima questione aperta riguarda Gaza. Netanyahu ha lanciato l’attacco a nord senza che le operazioni militari si fossero concluse o gli ostaggi liberati. La priorità per lui è degradare l’Iran e i suoi alleati e, dietro il paravento dell’auto-difesa, promuovere l’espansione israeliana a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, dove non a caso le violenze e gli espropri di abitazioni e terre dei palestinesi sono aumentate (dal 7 ottobre gli israeliani hanno ucciso circa 700 persone di cui circa 160 bambini).

Quello a cui andiamo incontro è un Levante in cui Israele si sente paranoicamente sempre più a rischio esistenziale nonostante nel corso della storia (e grazie al sostegno americano) abbia degradato militarmente tutti i suoi nemici, alcuni dei quali sono stati poi ‘cooptati’ dalla diplomazia Usa (Egitto e Giordania prima, poi Emirati Arabi e in parte Arabia Saudita); un Israele che eserciterà una forma più o meno diretta di controllo militare sulla fascia a nord del confine con Libano e a Gaza (riservandosi il diritto di intervenire ad arbitrio); e un Israele che continuerà a radicarsi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, consolidando così il decennale sistema di oppressione sistematica di milioni di persone in ultimo dettagliato dalla Corte internazionale di giustizia.

È senz’altro prematuro fare predizioni certe, eppure questo scenario sembra il più probabile alla luce del fatto che Israele non trova ostacoli militari nei suoi nemici e non trova opposizione diplomatica nei suoi amici. Washington e diverse capitali europee sono contrarie a ogni forma di pressione su Israele, e anzi continuano a riconoscergli un diritto all’autodifesa dall’interpretazione iper-estensiva che non riconoscerebbero a loro stessi.

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