L’espansionismo cinese non ha solo caratteristiche economiche, ma è volto anche ad affermare i diritti della Cina sulle acque del Mar cinese meridionale e nello stretto di Taiwan. Quanto al Mar cinese meridionale, si tratta della famosa “linea dei nove tratti” che costituirebbe la proiezione della piattaforma continentale e della zona economica esclusiva di isole, scogli e costruzioni artificiali adiacenti alla massa continentale cinese, dichiarata illegittima nel 2016 da un Tribunale arbitrale istituito nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, di cui la Cina è parte. Lo hanno ribadito i ministri degli affari esteri del G7 nel comunicato finale della riunione di Tokyo del 18 aprile scorso.
I ministri si sono dichiarati preoccupati per altre rivendicazioni marittime cinesi. Tra queste, quantunque non espressamente nominate, sono da annoverare le acque dello stretto di Taiwan. Si tratta di uno stretto in senso geografico e non in senso giuridico, in quanto le acque territoriali delle opposte coste, cioè la terraferma e l’isola, non coprono tutte le acque dello stretto, ma lasciano un ampio corridoio di alto mare, soggetto alla libera navigazione delle flotte mercantili e militari ed al sorvolo di aerei civili e militari. In proposito è ininfluente lo status di Taiwan, sia che si tratti di uno stato indipendente oppure di territorio appartenente alla Repubblica popolare cinese (RPC).
Lo status di Taiwan: brevi cenni storici
Lo status di Taiwan è oggetto di contestazioni, che non aiutano di certo a trovare una soluzione politica improntata ai principi del diritto internazionale.
Una breve ricostruzione storica è necessaria. Taiwan nasce nel 1949, dopo che la guerra civile si concluse a favore del partito comunista cinese e il governo nazionalista di Ciang Kai-shek fu costretto a ritirarsi nell’isola. Non fu tuttavia proclamata l’indipendenza, ma il governo nazionalista continuava a ritenersi il governo dell’intera Cina, come del resto fece il governo di Mao Zedong, che riteneva il regime di Ciang solo un regime ribelle.
La questione era tutt’altro che teorica, poiché la Cina, secondo lo statuto delle Nazioni Unite, aveva un seggio permanente in seno al Consiglio di sicurezza. Quale dei due governi aveva diritto di rappresentarla? Fino al 1971 il seggio alle Nazioni Unite fu occupato dal governo nazionalista, ma a partire dal 25 ottobre 1971 fu insediato il governo della RPC, definito dalla risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come il solo governo legittimo della Cina e nello stesso tempo furono espulsi i delegati di Ciang Kai-shek, che occupavano “illegalmente” il seggio cinese.
Per intrattenere relazioni diplomatiche, la Cina pretese che la RPC fosse riconosciuta come l’unico governo della Cina e che fossero immediatamente interrotte le relazioni diplomatiche con Taiwan. Cosa che si affrettarono a fare i governi occidentali, inclusi gli Stati Uniti a partire dal 1979. Attualmente solo pochissimi Stati riconoscono Taiwan e il loro numero sta da tempo scemando. Gli Stati occidentali hanno aperto a Taipei degli uffici di collegamento, per consentire lo svolgimento di rapporti essenzialmente commerciali.
Ribelli e governo legittimo
In Cina, il mutamento rivoluzionario di regime ha consentito agli insorti di sostituirsi al governo costituito e a quest’ultimo di funzionare in una frazione minima di territorio, pur continuando a rivendicare di essere il governo dell’intera Cina. Ma da tempo le parti si sono invertite. Quello che era il governo ribelle è diventato il governo costituito, mentre quello che era il governo costituito è diventato il governo ribelle. Posta in questi termini, la soluzione è obbligata: il governo costituito ha tutto il diritto di sconfiggere il governo ribelle, ovvero la RPC è legittimata a riprendersi Taiwan, usando la forza se necessario.
Alla conclusione opposta si perviene, qualora si ammetta che ormai la secessione è un fatto compiuto e che Taiwan sia uno stato indipendente. Se così fosse, l’uso della forza da parte della RPC per conquistare Taiwan costituirebbe una violazione della Carta delle Nazioni Unite, qualificabile come aggressione. Ma Taiwan è uno Stato? Ne ha tutti gli elementi (territorio, popolazione e governo), salvo la volontà di considerarsi un nuovo Stato, non avendo effettuato neppure una dichiarazione d’indipendenza.
Alla luce delle due teorie deve essere giudicato il comportamento dei terzi stati. Se Taiwan è solo un governo ribelle, i terzi commetterebbero un illecito qualora intervenissero a favore di Taiwan. Al contrario, se Taiwan è uno Stato: sarebbe consentito l’uso della forza a suo favore in legittima difesa collettiva.
Quale soluzione?
L’augurio è una soluzione pacifica della questione. I principali attori sembrano escluderla, ma la RPC non ha ancora varcato il Rubicone pur ricorrendo a manovre militari piuttosto intrusive. Gli Stati Uniti forniscono armi a Taiwan, ma si guardano bene dal riesumare il trattato di mutua assistenza che avevano abrogato nel 1980. Gli europei, anche se non in piena sintonia con le dichiarazioni di Macron dopo la recente visita in Cina, non hanno nessun interesse a irrogare pesanti sanzioni alla Cina, che rappresenta un importante partner commerciale.
Una soluzione pacifica potrebbe consistere nell’incorporare Taiwan (la c.d. riunificazione), lasciandole una ragguardevole autonomia e autogoverno, a cominciare dal godimento dei diritti umani. Ma l’esempio di Hong Kong non gioca davvero a favore di tale soluzione. Inoltre, chi garantirebbe lo statuto di autonomia?
Meglio quindi lasciare le cose al loro posto, con Taiwan come un’entità di fatto indipendente, ma con uno status che non le consente una piena partecipazione come membro della comunità internazionale. Quanto questa situazione possa durare è difficile dirlo. Essenziali sono la politica di sostegno degli Stati Uniti a Taiwan nelle forme attuali, che finisce per giocare un ruolo di deterrenza, e il contrasto alle ambizioni cinesi nei mari adiacenti, compreso il mantenimento della rotta di alto mare tra la Cina continentale e l’isola.