Le tensioni lungo i “nove tratti” del mar Cinese meridionale

L’11 aprile Stati Uniti e Filippine hanno dato il via alle più grandi esercitazioni militari congiunte della loro storia. Si tratta delle operazioni di addestramento annuali tra i due paesi chiamate “Balikatan” (termine tagalog per “spalla a spalla”), giunte alla trentottesima edizione. Non erano mai state così imponenti. Circa 17.600 soldati, di cui 12.200 americani: quasi il doppio dei 9 mila totali dell’anno scorso. Presenti anche un centinaio di soldati australiani e una serie di rappresentanti di altri Stati, tra cui il Giappone, a fare da osservatori.

Le attività di addestramento andranno avanti fino al 28 aprile e si terranno prevalentemente nel mar Cinese meridionale, mare sul quale la Cina rivendica per gran parte la propria sovranità. Secondo la Repubblica popolare, tutto ciò che rientra all’interno della cosiddetta “linea a nove tratti” – una demarcazione che comprende oltre l’80% delle acque del mar Cinese meridionale – appartiene a Pechino su basi storiche. È una posizione che si scontra con le legittime pretese, sancite dal diritto internazionale, di altri quattro paesi che si affacciano sull’area: Filippine, Vietnam, Malesia e Brunei. A loro vanno aggiunti l’Indonesia, che non si ritiene ufficialmente parte della disputa ma che vede una porzione della propria zona economica esclusiva (ZEE) sovrapporsi alla linea a nove tratti cinese, e la Repubblica di Cina (Taiwan), anch’essa per ragioni storiche.

Il cambio di rotta delle Filippine

Negli ultimi decenni l’assertività della Cina nel mar Cinese meridionale è progressivamente aumentata. Per avvalorare le proprie rivendicazioni Pechino ha occupato, militarizzato e in alcuni casi anche costruito artificialmente una serie di isole, in particolare all’interno degli arcipelaghi delle Spratly e Paracel. Nel 2016 una sentenza della Corte permanente di arbitrato dell’Aia ha accolto la richiesta delle Filippine e dichiarato infondate le pretese cinesi sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), ma a poco è servita. La decisione della corte è “nulla, illegale, e la posizione della Cina di non riconoscerla è chiara e ferma”, ha dichiarato il 12 aprile Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri cinese.

Se ancora oggi a Pechino se ne parla con tanta durezza non è solo per il rifiuto cinese di recepire la sentenza: qualcosa è cambiato. L’elezione a giugno 2022 di Ferdinand Marcos Jr. a presidente delle Filippine ha trasformato la politica estera del Paese. Nel tentativo di attirare più investimenti dalla Repubblica popolare, il suo predecessore, Rodrigo Duterte, aveva allontanato lo storico alleato americano e assunto posizioni filo-cinesi. Ne è scaturita una certa morbidezza riguardo le dispute marittime sul mar Cinese meridionale, che ha portato le navi di Pechino ad aumentare la frequenza delle invasioni nella ZEE filippina (più di 200 solo nel 2021). Di fronte agli evidenti insuccessi di Duterte, anche sul piano commerciale, Marcos ha invertito la rotta.

Le esercitazioni “Balikatan” arrivano due mesi dopo che una nave della guardia costiera cinese ha accecato con un laser militare quella filippina, e a poche settimane dall’estensione dell’Accordo di cooperazione rafforzata per la difesa (EDCA) tra Manila e Washington, stipulato nel 2014 per garantire l’accesso dei soldati americani in cinque basi militari nel paese. A marzo sono diventate nove. Tre dei nuovi siti previsti dall’EDCA si trovano nell’estremità delle Filippine più vicina a Taiwan, uno affaccia sul mar Cinese meridionale.

Nella dichiarazione congiunta pubblicata l’11 aprile al termine del vertice 2+2 tra i ministri degli Esteri e della Difesa di Manila e Washington (rispettivamente Enrique Manalo e Carlito Galvez Jr. da un lato, Antony Blinken e Lloyd Austin dall’altro) si legge la “forte obiezione alle rivendicazioni marittime illegali, alla militarizzazione delle zone reclamate e alle attività minacciose e provocatorie nel mar Cinese meridionale”, facendo menzione esplicita della Repubblica popolare. Oltre ad annunciare nuove manovre marittime congiunte, i funzionari dei due Paesi hanno inoltre aperto alle operazioni con altri Stati entro la fine dell’anno. L’indiziato numero uno è il Giappone.

Gli altri attori

Nei piani di Giappone, Filippine e Stati Uniti c’è infatti l’istituzione di un nuovo gruppo trilaterale finalizzato alla cooperazione militare. Si chiamerà JAPHUS, almeno nelle idee preliminari. Ciò significherebbe portare a un livello successivo l’impegno di rafforzare i reciproci legami di sicurezza che il primo ministro giapponese Fumio Kishida aveva preso con Marcos a febbraio, durante la visita del presidente filippino a Tokyo. Come dichiarato dall’analista Collin Koh a Nikkei Asia, “il Giappone considera le controversie sul mar Cinese meridionale come parte dei suoi calcoli di sicurezza sul mar Cinese orientale, oltre che come una via di comunicazione marittima vitale per il proprio benessere economico”.

L’importanza extra-regionale del mar Cinese meridionale sta nel fatto che vi passa attraverso almeno un quinto del commercio globale. Ma le sue acque sono anche un centro vitale per la pesca e l’approvvigionamento energetico dei paesi del sud-est asiatico. Il 27 marzo una nave della guardia costiera cinese è stata accompagnata fuori dalla ZEE vietnamita dopo essersi avvicinata a un sito di estrazione del gas, gestito da una compagnia russa: si è trattato del quarantesimo episodio simile in un anno. Sebbene non esista alcun tipo di restrizione alla navigazione internamente alle ZEE, Vietnam e Indonesia – che hanno firmato un accordo per delimitare le rispettive zone economiche esclusive a dicembre del 2022 – hanno chiesto a Pechino di evitare di far passare le sue navi a ridosso dei giacimenti. In un caso, a gennaio, l’Indonesia ha reagito all’ingresso di un’imbarcazione cinese schierando una nave da guerra.

Ambiguità strategica e diritto del mare

La Repubblica popolare utilizza questo tipo di incursioni per affermare i propri diritti giurisdizionali su risorse energetiche che, secondo il diritto internazionale, sono legittimamente sfruttate dai paesi del Sud-Est asiatico. E non tutti riescono a mettersi sulla difensiva. In Malesia il primo ministro Anwar Ibrahim è stato duramente criticato per aver dichiarato, durante il suo viaggio in Cina a inizio aprile (nel quale si è assicurato 38 miliardi di dollari di investimenti), di essere “aperto a negoziati” per risolvere eventuali controversie con Pechino sulle trivellazioni di Petronas nella ZEE malese. Per il leader dell’opposizione Muhyiddin Yassin questo significa “riconoscere indirettamente le pretese cinesi sul territorio della Malesia”.

Fa parte dell’ambiguità strategica di Pechino sul mar Cinese meridionale. Mentre da una parte si mostra intransigente sul piano delle incursioni navali, forte di una capacità militare impareggiabile, dall’altra la Repubblica popolare apre genericamente alla “comunicazione e alla consultazione” bilaterali sapendo che il proprio status di partner commerciale fondamentale impedisce agli Stati regionali di affrontare la questione delle dispute territoriali a viso aperto. Il nuovo approccio delle Filippine, in tal senso, ha colto la leadership cinese in contropiede.

A marzo sono ricominciati i colloqui tra Cina e ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico) per redigere un Codice di condotta (CoC) che dovrebbe regolamentare i comportamenti degli Stati nel mar Cinese meridionale. È un documento di cui si parla da vent’anni, ma c’è chi dubita che Pechino sia davvero interessata a modificare lo status quo. “La Cina preferisce usare il dialogo bilaterale per indebolire l’impegno multilaterale”, ha dichiarato l’analista Andre Wheeler ad Asia Sentinel. E si è già ipotizzato che il CoC potrebbe non essere legalmente vincolante.

I rischi per la regione

Il perenne rinvio di una soluzione diplomatica ha intensificato la militarizzazione del mar Cinese meridionale. Il 23 marzo e il 10 aprile navi da guerra americane si sono avvicinate al mare territoriale rispettivamente delle isole Paracel e Spratly controllate da Pechino, che ha parlato di “provocazioni“. Sono solo gli ultimi episodi di operazioni diventate sempre più frequenti. Non aiutano poi le tensioni sullo stretto di Taiwan: lo stesso presidente filippino Marcos ha affermato di “non riuscire a immaginare uno scenario” in cui il suo Paese non sarà coinvolto in un eventuale conflitto e che le dispute nel mar Cinese meridionale lo “tengono sveglio la notte”.

Secondo un rapporto del Pentagono, il mar Cinese meridionale è inoltre il luogo dove stazionano i sottomarini cinesi dotati di armi nucleari, che da tempo starebbero aumentando di numero e per intensità delle pattuglie. Non molto distante dalle acque contese, nel golfo della Thailandia, Pechino ha da poco concluso delle esercitazioni congiunte con la Cambogia, con cui sta rafforzando i legami militari. Phnom Penh è accusata di aver stipulato un accordo segreto per permettere all’Esercito popolare cinese di usare la base navale di Ream: sarebbe la prima nel Sud-Est asiatico per la Cina.

Due giorni dopo la fine delle esercitazioni attorno a Taiwan, il 12 aprile, il presidente cinese Xi Jinping ha visitato la provincia meridionale del Guangdong. In un discorso alla Marina cinese che opera nel mar Cinese meridionale, Xi ha parlato della necessità di difendere “la sovranità territoriale della Cina e i suoi interessi marittimi” e di “rafforzare l’addestramento militare orientato al combattimento reale”. Dichiarazioni dall’alto tasso retorico ma indicative dello stato delle tensioni nella regione. A qualche centinaio di chilometri dal Guangdong, Filippine e Stati Uniti avevano già pianificato di testare il bombardamento e l’affondamento di una finta nave nemica durante le “Balikatan 2023”.

Foto di copertina EPA/PCG/HANDOUT

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