Le Nazioni Unite di fronte alla sicurezza migratoria

L’appello ad una “guerra globale ai trafficanti di uomini” lanciato all’Assemblea generale delle Nazioni unite dalla premier Giorgia Meloni ha lasciato il segno. Al di là dei suoi effetti politici che evidenziano la volontà italiana di fare delle migrazioni mediterranee di massa una questione multilaterale, c’è da chiedersi quale ruolo le Nazioni Unite (NU) abbiano sinora giocato nel governare il fenomeno.

L’analisi non è semplice anche perché riguarderebbe l’attività di alcune agenzie specializzate come l’Alto commissariato per i rifugiati (UNHCR) e l’Organizzazione internazionale per la migrazione (IOM) che operano nella tutela dei migranti e che potrebbero essere coinvolte nell’organizzazione di corridoi migratori.

Ci interessa invece evidenziare come l’azione sinora svolta dall’Assemblea generale nell’indicare agli Stati gli strumenti da applicare nel campo della sicurezza migratoria in mare consenta al nostro Paese di dare concretezza, in questo settore, all’iniziativa multilaterale lanciata con la recente conferenza di Roma su sviluppo e migrazione.

L’impossibile modello “lotta ai pirati”

Da anni, anche nell’ambito dell’Unione europea, si adombra la possibilità di sradicare il traffico di migranti ed esseri umani seguendo l’esperienza del contrasto alla pirateria del Corno d’Africa che è ancora in corso.

Il Consiglio di sicurezza delle NU, per fronteggiare quella che è considerata una minaccia alla pace, alla sicurezza internazionale ed alla libertà di navigazione, ha emanato dal 2008, sulla base del Capo VII della Carta, una serie di risoluzioni coercitive che autorizzano gli Stati a far ricorso, nel rispetto del diritto internazionale, a “tutti i mezzi necessari”.

Si potrebbe fare altrettanto in mare contro scafisti e trafficanti, qualora il Cds funzionasse regolarmente? La risposta è negativa se si considera che al momento il fenomeno non ha raggiunto il livello di una minaccia generalizzata alla sicurezza della comunità internazionale.

Questo spiega come EunavForMed “Sophia” nel 2015 non abbia messo in atto azioni di dirottamento in acque territoriali straniere o in alto mare per mancanza di autorizzazione del Cds e di consenso degli Stati costieri interessati, limitandosi a soccorrere i migranti, sbarcarli in Italia e consegnare alle nostre autorità i sospetti scafisti.

La Risoluzione sugli Oceani

Se il Cds adotta decisioni vincolanti, l’Assemblea generale approva raccomandazioni che gli Stati dovrebbero applicare agendo in buona fede. L’assise delle NU si è perciò confrontata con il fenomeno migratorio nell’ambito di uno strumento non vincolante come l’annuale Risoluzione sugli Oceani che in alcune parti (para 161-187) invita gli Stati a cooperare nella prevenzione delle attività illecite legate all’immigrazione irregolare.

La Risoluzione auspica l’assistenza agli Stati nello sviluppo di capacità SAR per il soccorso a imbarcazioni prive di requisiti di navigabilità, e sottolinea il ruolo dell’IMO nello stabilire le procedure di sbarco in un luogo sicuro (POS) dei migranti salvati.

Rilevante è, in particolare, il fatto che in essa sia richiamata l’applicazione del Protocollo di Palermo del 2000 riguardante, tra l’altro, la prevenzione e repressione degli illeciti connessi al traffico di migranti via mare su cui si è pronunciata la premier Meloni.

Il Protocollo di Palermo

Concepito nell’ambito dell’Ufficio delle NU su droga e crimine (UNODOC) di Vienna su mandato dell’Assemblea generale, il Protocollo, nelle intenzioni dell’Italia che con l’Austria aveva redatto un testo preparatorio, avrebbe dovuto assimilare il traffico di migranti alla pirateria come crimine internazionale, autorizzando azioni di dirottamento delle navi trasportanti migranti.

La soluzione, ritenuta non conforme ai principi del diritto internazionale consuetudinario e pattizio vigente, non fu approvata: si stabilirono perciò procedure per far fronte, d’intesa coi Paesi di bandiera, a casi di trasporto di migranti in mare, nel rispetto dei principi umanitari e del SAR. L’accordo definisce anche gli elementi del reato di traffico di migranti che gli Stati parti dovrebbero inserire nel loro ordinamento, cooperando in via giudiziaria per l’esercizio della relativa giurisdizione.

Entrato in vigore nel 2004, il Protocollo non è mai decollato. In Mediterraneo non ha costituito la base per intese regionali, benchè ratificato da Algeria, Egitto, Francia, Grecia, Italia, Libia, Malta, Spagna, Tunisia. Il Marocco non ne è parte avendo forse privilegiato intese bilaterali con Madrid.

Il “Rome Process”

Tra le cause della mancata applicazione del Protocollo di Palermo potrebbe esserci il fatto che esso è stato percepito dai Paesi del Sud globale come mezzo per proteggere gli interessi delle nazioni più sviluppate.

Nel Sud-Est asiatico in cui si verificano situazioni migratorie simili a quelle mediterranee è da tempo avviato il Bali Process, iniziativa a guida di Australia ed Indonesia cui aderiscono vari Paesi dell’area, mirata a realizzare forme di cooperazione regionale in materie analoghe a quelle disciplinate dal Protocollo di Palermo.

Per l’Italia, governare i flussi migratori via mare è stata sinora un’impresa ardua e dai risultati spesso contraddittori rispetto ai fini. Di fatto, l’Italia non è riuscita a stabilire le necessarie intese regionali nei settori del SAR, delle procedure di sbarco dei migranti salvati (POS) e della cooperazione giudiziaria coi Paesi di origine di trafficanti e scafisti, anche per via dell’impossibilità di coinvolgere una Ue priva di competenze in materia.

Con il Rome Process, iniziativa pluriennale avviata dall’Italia con la partecipazione di tutti i Paesi rivieraschi del Mediterraneo, si pongono ora le premesse per trovare, mediante un dialogo strutturato su base regionale, soluzioni pragmatiche a tali problemi nello spirito della Risoluzione sugli Oceani e del Protocollo di Palermo.

Foto di copertina EPA/JUSTIN LANE

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