L’Amministrazione Trump e il ‘checks and balances’

È lecito chiedersi come la democrazia americana – che Sabino Cassese ha detto avere non poche rughe – affronterà la forte lesione che subirà il sistema dei “pesi e contrappesi”, su cui si fonda per molta parte, ora che la presidenza della Federazione, il Senato, probabilmente la Camera dei Rappresentanti e la Suprema Corte appaiono “in toto” allineati con il vincitore del confronto elettorale, Donald Trump. 

Le configurazioni istituzionali di questi organi, per svolgere la funzione di “checks and balances”, non  prescindono di certo dalla loro composizione e dai rapporti tra le forze politiche, che, nel nostro caso, registrano ovunque la prevalenza repubblicana. Ciò è fondamentale per chiedersi quel che ne sarà dei diritti civili, ma anche dell’economia per la quale si prospettano, con Trump, già prime misure protezionistiche, mentre lo sviluppo di un multilateralismo di cui gli Stati Uniti siano parte attiva va, almeno per ora, archiviato.

I contrappesi al governo Trump

Tra i “contrappesi” si possono forse ancora annoverare la Federal Reserve, la Sec, altri organismi neutri di garanzia e le Corti di giustizia, ma ciò fino a quando non si creeranno le condizioni perché Trump possa sostituirne i vertici, magari senza che questo possa apparire una plateale forzatura. Del resto, a proposito del rapporto che sarà instaurato con la Fed, che avrà un valore ultrattivo, non bisogna dimenticare che diverse volte in questi ultimi tempi Trump ha detto che, se fosse stato eletto, avrebbe destituito il presidente della Banca centrale, Jerome Powell, reo, a suo dire, di una conduzione della politica monetaria non come lo stesso Trump l’avrebbe voluta. Insomma, una concezione della prima banca centrale del mondo al servizio di chi governa. Naturalmente, ciò deve fare i conti con la durata del mandato di Powell che scade, per legge, solo nel 2026 e non può terminare anticipatamente con una decisione traumatica presidenziale. In ogni caso, si evidenzia una relazione fondamentale che non può non tenere conto dell’autonomia della Fed, il cui eventuale mancato rispetto può finire con l’avere pesanti ripercussioni negative sui mercati e, più in generale, sull’economia.

Come nei confronti di tutte le Banche centrali in un sistema democratico, non si può contestare una sana dialettica tra chi sovrintende alla politica monetaria e chi ha la responsabilità di quella economica e sociale. Una dialettica che, soprattutto, si esprima sui mezzi, avendo come fine unitario gli interessi generali del Paese. Insomma, una “discordia concors”. Ciò, però, richiede l’osservanza delle regole del gioco che non convergono affatto in un potere superiore di chi governa, tale che egli possa dire al banchiere centrale: “se non fai quel che ti dico io, ti licenzio”. Un atteggiamento del genere sarebbe una manifestazione chiara di autocrazia, come dimostra il fatto che banchieri centrali vengono molto spesso cambiati d’imperio proprio in regimi autocratici.

Verso l’isolazionismo USA?

Come contrappesi, insomma, restano la stampa, il mondo delle professioni – si pensi ai medici e alla nomina in predicato del “no vax” Robert Kennedy a Ministro della sanità –, gli accennati organismi di garanzia, se la loro attività non sarà ostacolata (il che non è agevolmente prevedibile), e, fino a quando non sarà esercitata l’ingerenza trumpiana nei vertici, le Corti di giustizia. Ma si dovrà pensare anche al “Deep State”? Vi sono, poi, gli organismi globali, in particolare quelli economici e finanziari, dal Wto al Fondo monetario internazionale, fino alla Banca mondiale e al Financial stability Board, per non parlare ovviamente dell’Onu e delle sue ramificazioni e strutture. Istituzioni, tutte, nelle quali si esercita una sorta di egemonia o comunque di non secondaria presenza americana.

Ma è immaginabile che si possa realizzare una sorta di “vincolo esterno“? Una politica che rilanci la leva dei dazi sulle importazioni, si ritragga in larga parte dalle spese Nato per la difesa, deduca tutte le inferenze dallo slogan continuamente recitato “America First” e con ciò riediti, con i dovuti cambiamenti, la dottrina Monroe dell'”America agli americani” secondo una concezione tendenzialmente isolazionista, rappresenta un cambiamento d’epoca, con il quale, se sarà veramente attuata – e non si tradurrà solo in minacce o finirà in burletta – ci si dovrà confrontare a livello mondiale.

Sfide e opportunità per l’Unione europea

“In primis” lo dovrà fare l’Unione europea, svegliandosi da un letargo nella politica estera (pur con limitati poteri) e agendo con determinazione per una coesione al suo interno che le consenta una “single voice” nei rapporti globali. E ciò mentre già si registrano segni di de-globalizzazione, aumenta la frammentazione, sono evidenti le conseguenze delle due guerre in atto e delle altre tensioni geopolitiche e incombe la necessità di politiche organiche per le diverse transizioni, a partire da quella ecologica e digitale. Come se ciò non fosse sufficiente, si aggiunge pure la crisi politica in Germania – già il “motore”, insieme alla Francia, dell’Europa – che fa seguito alla recessione economica: eventi, fino a poco tempo fa, impensabili. 

Al passaggio d’epoca di cui si è detto e che potrà concretizzarsi bisogna attrezzarsi per rispondere con un impegno all’altezza di questo possibile futuro prossimo. Per l’Unione è una sfida campale che può mettere in forse il suo sviluppo e indirizzarla verso un netto ripiegamento istituzionale, politico ed economico. A meno che “ex malo bonum”: sia questa la straordinaria occasione per un rilancio fino ad ora imprevedibile, ma che la forza degli eventi e il pericolo di totale regressione impongono che sia perseguito. L’ottimismo della volontà deve essere in primo piano.

Ultime pubblicazioni