È sulla bocca di molti il termine “garanzie di sicurezza” (security guarantees) o quello, non del tutto equivalente, di “assicurazioni di sicurezza” (security assurances), soprattutto con riferimento a una possibile situazione postbellica in Ucraina. Di questi termini si parla da tempo: la differenza tra i due, almeno nel gergo anglosassone, è che al primo viene attribuita di norma una valenza giuridica più vincolante. Pochi ricordano oggi le “assicurazioni negative di sicurezza” che vennero decretate nel 1995, allorché il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) – quello che permette solo a cinque stati (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) di possedere l’arma nucleare – venne prorogato a tempo indeterminato. In tale occasione i paesi citati si impegnarono a non usare armi nucleari contro quegli stati che, ai sensi dello stesso Trattato, avevano rinunciato all’arma nucleare. La lettera di tale impegno è stata sinora rispettata, poiché nessuno stato nucleare ha da allora impiegato tale arma. Il discorso cambia se si considera che, ai sensi dei testi delle Nazioni Unite, la minaccia dell’uso dell’arma nucleare viene equiparata al suo uso. In questo caso non si possono ignorare le minacce frequenti di cui l’ex presidente russo Medvedev è divenuto uno specialista. Lo stesso Putin, nei primi giorni dell’invasione, annunciò la messa in stato di allerta delle forze nucleari russe e, successivamente, anche lo stazionamento di armi nucleari in Bielorussia. La Nato sinora ha evitato di far “scintillare la sciabola” nucleare. È stata assai criticata un’uscita, nel marzo scorso, dell’allora presidente polacco Duda, che invitò allo stazionamento di armi nucleari USA e anche francesi in territorio polacco.
Il concetto di garanzie di sicurezza aventi carattere nucleare si trovò anche al centro delle improbabili trattative avviate dal presidente Trump, durante il suo primo mandato, con il leader nordcoreano Kim Jong-un. Non si è mai capito quali fossero le effettive garanzie di sicurezza che Kim si aspettava in cambio di una non meglio specificata “denuclearizzazione della Penisola Coreana”. Probabilmente egli mirava al ritiro delle forze USA dalla Corea del Sud. L’intera trattativa si risolse in un fiasco clamoroso, in gran parte istigato dagli stessi collaboratori di Trump e, in particolare, dal suo battagliero consigliere per la sicurezza, John Bolton.
Ma l’argomento in esame non riguarda solo il settore nucleare. Sempre a proposito dell’Ucraina, molti dimenticano volentieri il clamoroso precedente del Memorandum di Budapest del 1994, sottoscritto con l’Ucraina da russi, americani e britannici, che sanciva “l’obbligo di astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dell’Ucraina”. Prevedeva inoltre la rinuncia a misure economiche coercitive e alla minaccia e all’uso dell’arma nucleare. In cambio, l’Ucraina assunse l’impegno – per il quale oggi si morde le dita – di rinunciare all’arma nucleare e di trasferire alla Russia le testate e i vettori nucleari sovietici che si trovavano sul suo territorio. Pur trattandosi di assicurazioni e non di garanzie, il testo del Memorandum fu sottoscritto al massimo livello dagli stessi Capi di Stato e di Governo dei quattro paesi. L’attuale Ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, allora Rappresentante Permanente all’ONU, si affrettò, assieme ai suoi colleghi a New York, a richiedere che questa intesa figurasse tra i documenti ufficiali dell’ONU. Queste assicurazioni altisonanti non impedirono proprio alla Russia, stato garante, di intervenire militarmente nelle regioni di confine, di impossessarsi della Crimea ed infine di dare avvio a una guerra vera e propria contro l’Ucraina.
Visti questi precedenti, è difficile che uno stato possa affidare “sic et simpliciter” la propria sicurezza a siffatti impegni. Diversa è la situazione per quelle che si possono definire come “garanzie positive di sicurezza”, che prevedono un intervento attivo a difesa della parte attaccata. È questo il caso dell’articolo 5 del Patto Atlantico – giuridicamente vincolante – che prevede che ciascuno stato membro “assisterà la Parte o le Parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre Parti, l’azione che giudicherà necessaria, incluso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza della regione dell’Atlantico del Nord”. Tale articolo è stato per oltre 70 anni il fulcro dell’Alleanza Atlantica ed è stato riaffermato in occasione dell’ultimo vertice della Nato, tenutosi all’Aja nel giugno scorso, in cui tutte le parti – America inclusa – confermarono solennemente l’impegno “ferreo” (ironclad) alla difesa collettiva. Il fatto che questo impegno sia giuridicamente vincolante è rassicurante. Ciò che più conta, tuttavia, è la realtà oggettiva sottostante che, nel caso della NATO, consiste nei decenni di coordinamento e pianificazione militare congiunta, di esercitazioni comuni, di armonizzazione degli armamenti e di strutture di comando e controllo condivise. Ancora più importante è la presenza sul suolo europeo di circa 100.000 soldati USA. Non si può ignorare la componente dissuasiva nucleare. Nella dottrina Nato “la suprema garanzia di sicurezza degli alleati è data dalle forze strategiche nucleari dell’Alleanza, in particolare quelle degli Stati Uniti; le forze strategiche indipendenti del Regno Unito e della Francia, che hanno un proprio ruolo, contribuiscono alla deterrenza globale”.
In altre parole, le garanzie di sicurezza dell’articolo 5 hanno valore in quanto corroborate da una solida e collaudata prassi e struttura di difesa. Non si può ignorare però che, in varie circostanze – e da ultimo ai margini del Vertice dell’Aja – il presidente Trump ha cercato di relativizzare la valenza dell’articolo 5, parlando di “varie definizioni” della sua attuazione. Da anni, egli afferma inoltre che il sostegno USA agli alleati potrebbe dipendere dal livello della loro spesa militare. Il principale “deal” emerso dal recente Vertice dell’Aja è stato sostanzialmente quello di un impegno degli alleati a raggiungere la quota altissima del 5% del PIL per le spese di difesa in cambio di una riaffermazione dell’articolo 5, la cui natura “ferrea” esce però sminuita da tale condizionamento. Per ora, a parte le dichiarazioni, ciò che conta è vigilare sulla perdurante presenza fisica americana come indicatore delle vere intenzioni di Washington. Prima o poi verrà resa pubblica anche la “posture” di difesa e nucleare della nuova amministrazione. Sarà un altro indicatore importante.
L’Europa non può basare la propria sicurezza su una terminologia ambigua. Le “garanzie” di sicurezza non sono le “assicurazioni” di sicurezza; quelle positive sono diverse da quelle negative; quelle nucleari non sono evidentemente analoghe a quelle convenzionali. In ogni caso occorre accertare non solo il valore terminologico e legale dell’impegno ma anche la sua credibilità in termini di volontà politica e di capacità militari.
L'Ambasciatore Trezza ha presieduto il Missile Technology Control Regime, la Conferenza sul disarmo a Ginevra e l'Advisory Board del Segretario generale delle Nazioni Unite per le questioni del disarmo a New York. È stato Ambasciatore d'Italia per il disarmo e la non proliferazione, e Ambasciatore della Repubblica di Corea. Attualmente coordina il gruppo italiano dell'European Leadership Network (ELN).