L’annuncio del presidente coreano Yoon Suk-yeol di applicare nel Paese la legge marziale ha preso di sorpresa sia i coreani sia l’intera comunità internazionale. La Costituzione contempla la possibilità di ricorrere a tale drastica misura, che in passato era stata già adottata ben 16 volte, ma ciò avvenne ai tempi in cui il Paese era retto da regimi autoritari. Da quando la Corea del Sud, nel 1988, è diventata un Paese democratico, tale misura non è stata più applicata.
Oltre alla decisione in sé, sono sorprendenti anche le motivazioni, poiché si è trattato di ragioni collegate alla peculiare situazione interna del Paese che non hanno molto a che vedere con le circostanze nelle quali è previsto il ricorso alla legge marziale, cioè in caso di guerra, incidenti e altre emergenze nazionali. Le ragioni invocate dal presidente si riferivano invece alla politica “anti-Stato e pro-Nordcoreana” dell’opposizione, guidata dal Partito Democratico, che detiene la maggioranza in Parlamento e che egli ha accusato di paralizzare l’azione del governo. Una situazione assai simile alla cohabitation che attualmente vige in Francia.
Trattandosi di una democrazia presidenziale in cui il capo dello Stato è anche capo dell’esecutivo, egli si trova inevitabilmente in grandi difficoltà a governare quando non ha o perde la maggioranza in Parlamento. È quanto avvenuto in Corea a seguito delle elezioni parlamentari dell’aprile scorso, nelle quali è stata confermata la maggioranza di cui già godeva l’opposizione democratica.
La legge marziale in Corea del Sud e la reazione istituzionale e popolare
Dopo l’annuncio, la macchina della legge marziale si è messa subito in moto, e i militari hanno iniziato a circondare le sedi istituzionali e, in particolare, il Parlamento. Contemporaneamente, si è messo in moto anche l’antidoto costituzionale, che prevede che la decisione sulla legge marziale possa essere revocata dal Parlamento con una decisione a maggioranza semplice. Ciò è avvenuto rapidamente, per cui la legge è rimasta in vigore solo per circa sei ore, dopo le quali il presidente è stato costretto a fare marcia indietro e a effettuare un mea culpa pubblico televisivo, accompagnato da un umiliante profondo inchino confuciano.
Il presidente non ha tuttavia dato le dimissioni, come richiesto dall’opposizione, dalle numerose manifestazioni popolari e persino da esponenti del suo stesso partito, inducendo l’opposizione ad avviare la procedura dell’impeachment, la quale richiede però il voto favorevole dei due terzi dell’Assemblea Nazionale, quota che non è stata raggiunta. Egli rimane quindi ancora in carica, ma non si può dire che con questo la crisi si sia risolta. Si è ora aperta anche una fase giudiziaria, avviata attraverso un’inchiesta dell’Alta Corte per insurrezione e abuso di potere, che rende la posizione del presidente insostenibile.
Tensioni internazionali e il ruolo degli Stati Uniti
Alla crisi interna si aggiunge la situazione, più critica che mai, dei rapporti intercoreani e l’incertezza sulle future mosse dell’amministrazione Trump. Dopo il “fiasco” subito durante la sua prima presidenza nel tentativo di avvicinamento con la Corea del Nord, Trump non vorrà certo ritentare l’esperimento. È assai prevedibile invece che, come probabilmente farà con l’Europa, egli vorrà condizionare il sostegno americano a Seoul a una maggiore partecipazione coreana ai costi della difesa comune.
Ciò avviene nel momento in cui la Corea del Nord, con l’invio di propri contingenti sul fronte ucraino, rafforza i suoi rapporti con Mosca e vorrà farsi ripagare in termini di sostegno diplomatico e di tecnologia militare. Anche se dovesse rimanere ancora in carica, il presidente Yoon, fortemente screditato all’interno e all’estero, ha i giorni al potere contati.