La vittoria di Orbán in un’Ungheria sempre meno democratica

Uniti per l’Ungheria – la coalizione multipartitica che include dai socialisti agli ecologisti, dai conservatori ai liberali ed è cappeggiata dal cattolico conservatore Peter Marki-Zay – ha radunato i propri sostenitori alla pista di pattinaggio nel parco cittadino della capitale ungherese Budapest, tra Piazza degli Eroi e il castello Vajdahunyad.

Sono in tanti, per lo più giovani. Alcuni, come me, sono venuti da altri Paesi europei per portare sostegno ai liberali di Momentum da parte dei partiti appartenenti alla famiglia europea dell’ALDE.

Non c’è eccitazione: “non sarà una vittoria”, dicono, “ma speriamo di riuscire a fare comunque un buon risultato”. Nell’arco di poche ore però arrivano le prime indiscrezioni e l’umore precipita: Viktor Orbán, al potere ininterrottamente dal 2010, è riuscito a conquistare il suo quinto mandato (era stato Primo ministro anche tra il 1998 e il 2002).

I risultati delle elezioni in Ungheria

La vittoria è stata schiacciante: con  il 53% dei voti, Fidesz ottiene 135 seggi su 199, confermando una maggioranza dei 2/3 dei seggi che gli consente di governare (e continuare a cambiare la Costituzione) in piena autonomia.

Uniti per l’Ungheria si ferma al 35% con 56 seggi. Mentre il Movimento per la Patria, una formazione di estrema destra ancora più radicale di Fidesz, arriva al 6,1% ed entra in Parlamento con ben 7 seggi. Un seggio va anche al partito della minoranza tedesca.

Ad avere diritto di voto, sono stati 8,2 milioni di ungheresi, inclusi gli ungheresi all’estero. E qui c’è la prima peculiarità del sistema elettorale introdotta da Orbán nel 2012 a tutto vantaggio del proprio partito: chi non ha una residenza permanente in Ungheria, ovvero la cosiddetta diaspora, che ha sempre votato al 96% per Fidesz, può votare per posta, chi vive temporaneamente all’estero, un elettorato tendenzialmente più progressista, può votare solo in una delle 146 sedi diplomatiche ungherese se si è registrato almeno 8 giorni prima della data delle elezioni.

Osservatori e politologi denunciano

Questa è solo una delle tante distorsioni del sistema ungherese per cui Marki-Zay ha detto nel suo discorso di accettazione della sconfitta: “non contestiamo la vittoria di Fidesz, ma il fatto che queste elezioni siano state democratiche”. Secondo politologo Péter Krekó il risultato elettorale non può interamente essere attribuito alla libera scelta dell’elettorato. Infatti, varie istituzioni pubbliche in Ungheria, come l’ufficio del procuratore e la commissione elettorale, non sono indipendenti e imparziali, per non parlare della stragrande maggioranza dei media.

Non a caso, l’Osce, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, quest’anno presieduta dalla Polonia, ha mandato un numero di osservatori elettorali mai visto prima in un paese dell’Unione europea e ha depositato un rapporto che riferisce di molteplici denunce di sovrapposizione tra le funzioni ufficiali del governo e le attività di campagna elettorale (notorio il caso dell’utilizzo dei messaggi elettorali mandati ai cittadini iscritti nelle liste per ricevere le allerte Covid-19).

A questo si aggiunge una significativa disparità nell’assegnazione di spazi per l’affissione dei manifesti elettorali, oltre a criticare la dominazione degli spot governativi nella pubblicità, l’assenza dei politici d’opposizione nei programmi delle reti pubbliche, le scarse garanzie di sicurezza del voto postale (la scandalo più noto è il plico di schede elettorali con voto a favore dell’opposizione ritrovate parzialmente bruciate in Transylvania e Vojvodina). La reazione di Viktor Orbán non si è fatta attendere: nel bel mezzo dell’invasione russa all’Ucraina, ha avuto l’ardire di commentare che le “istituzioni occidentali di pace sono diventate istituzioni di guerra”.

Gli scenari dei prossimi quattro anni

Questa retorica aggressiva potrebbe essere indicativa di ciò che aspetta gli ungheresi nei prossimi 4 anni. Dániel Turgonyi, vicesindaco di uno dei municipi di Budapest ed esponente del partito liberale Momentum, dice, tra le lacrime, di temere che Viktor Orbán inasprisca ulteriormente le proprie politiche riducendo ulteriormente gli spazi di democrazia e libertà nel paese. Luis Cano, sempre di Momentum, si concentra invece su un dato positivo: “dopo 12 anni, l’Ungheria avrà nuovamente un partito liberale in Parlamento”.

Ed effettivamente, il nuovo governo dovrà fronteggiare una seria crisi economica aggravata dall’invasione russa dell’Ucraina, dalla mancata consegna dei 7 miliardi di euro del Recovery fund da parte dell’Ue per le violazioni dello stato di diritto di Orbán e dalle prebende elettorali elargite dal governo: i pensionati ungheresi hanno ricevuto un pagamento extra della “tredicesima mensilità”; i minori di 25 anni sono stati esentati dall’imposta sul reddito personale; le famiglie con bambini hanno ottenuto rimborsi fiscali, mentre i soldati e gli agenti di polizia ungheresi hanno ricevuto aumenti di stipendio del 10%.

Un altro problema del nuovo governo sarà l’isolamento internazionale, destinato a crescere: oltre al conflitto con l’UE sul rispetto dello stato di diritto, l’atteggiamento pro-Putin di Orbán e le tensioni tra lui e Zelensky, il presidente ucraino, hanno portato alla rottura tra i Paesi del blocco di Visegrád.

Tra i giovani presenti alla pista del ghiaccio alcuni iniziano a pensare di non potersi costruire una vita in Ungheria e dicono di voler andare via, ma Marki-Zay ha esortato, nel suo discorso, a rimanere, sostenersi a vicenda e resistere.

Foto di copertina EPA/ZOLTAN FISCHER / HUNGARIAN PRIME MNISTER OFFICE

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