Poco dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, commentando la rapida quanto inaspettata unità della risposta occidentale, Ivan Krastev emise la profezia che il momento più difficile per il mantenimento dell’unità sarebbe coinciso con la prospettiva della cessazione delle ostilità. La frattura che si è creata fra gli Usa e l’Europa in seguito all’iniziativa unilaterale di Trump di cercare un dialogo con Putin sulle spalle dell’Ucraina è sembrata dar ragione a Krastev. Tuttavia, la frattura transatlantica non si è tradotta in una significativa divisione dell’Europa. A parte il caso dell’Ungheria, la reazione complessiva è stata abbastanza coerente. Abbandonata dall’alleato americano, l’Europa sembra aver preso coscienza di un doppio imperativo: dare finalmente senso alla prospettiva di una maggiore “autonomia strategica“, ma anche acquisire la consapevolezza che l’aggressione all’Ucraina è una componente della minaccia russa che è di lunga durata e che investe tutti. Si tratta quindi di affrontare in condizioni di estrema urgenza due sfide. La prima è quella di assumersi la principale responsabilità delle garanzie da dare all’Ucraina dopo la cessazione delle ostilità tenendo conto del rifiuto americano di prevederne un’adesione alla Nato. La seconda è quella di costruire finalmente quel “pilastro europeo” di cui si parla da molto tempo e di “europeizzare” l’alleanza; porre fine a una dipendenza, ma senza rompere con l’alleato.
Il fatto che la reazione europea possa apparire faticosa e a tratti confusa non deve indurre in errore. Lungi dall’essere velleitaria, essa prende gradualmente forma affrontando i numerosi problemi nella loro evidente complessità: il ritardo tecnologico, l’eccessiva dipendenza dalle forniture americane, la necessità di liberare risorse finanziarie in una situazione spesso difficile dei bilanci pubblici, l’evidente vantaggio che si avrebbe con acquisti e finanziamenti comuni. C’è soprattutto il complesso rapporto fra una difesa che si vorrebbe “europea” e la nostra appartenenza alla Nato; la consapevolezza che poco di veramente autonomo può avvenire nell’immediato, ma anche il fatto che nell’organizzazione delle necessarie catene di comando sarà molto utile approfittare dell’esperienza accumulata in 70 anni di appartenenza alla Nato. Il tutto con un alleato diventato improvvisamente a tratti ostile e sotto la pressione della necessità di far fronte in tempi rapidissimi alla questione delle garanzie all’Ucraina. Nella consapevolezza che, se si fallisce l’obiettivo immediato, cade anche la credibilità del programma più a lunga scadenza.
In questa situazione era inevitabile che le iniziative si muovessero al di fuori degli schemi prestabiliti. Assistiamo infatti a un processo parallelo ma sostanzialmente convergente che coinvolge da un lato le istituzioni europee e dall’altro un gruppo di “volonterosi” guidato da Francia e Regno Unito; un gruppo che per alcune questioni coinvolge anche altri membri della Nato come il Canada, la Norvegia e la Turchia e persino alleati asiatici dell’America. Nulla ci autorizza a dire che questo processo è destinato ad avere sicuro successo, ma possiamo però constatare che è sulla buona strada. Potremo dichiararci soddisfatti solo quando ne saranno chiariti gli aspetti finanziari e operativi e soprattutto quando sarà definitivamente chiaro che esso è sostenuto da un numero coeso di paesi sufficienti a fare “massa critica”.
Il ritorno della profezia?
Smentito finora, Krastev potrebbe tuttavia avere ragione nel momento in cui appariranno chiari i contorni di un accordo di “pace” fra Trump e Putin. Ciò che la conclusione dell’accordo metterebbe in gioco non sono tanto le motivazioni del progetto in atto da parte dei “volonterosi”, quanto le basi del consenso politico che lo ha finora sostenuto. L’insidia è doppia. In primo luogo, è infatti plausibile che l’accordo sia accompagnato da una decisione americana di sospendere in tutto o in parte le sanzioni contro la Russia. Non sarebbe una mossa facile a causa degli stretti legami della Russia con la Cina e l’Iran, ma plausibile nel quadro di un accordo ambizioso; sarebbe coerente con progetti di una imprecisata collaborazione economica e con una strategia volta a separare la Russia dalla Cina. Sollecitata a fare altrettanto, l’Europa si troverebbe in una situazione difficile. Tre terreni sarebbero particolarmente critici. Il primo è quello delle sanzioni finanziarie che sono state finora il pilastro principale e il più efficace. È inutile negare che sarebbe molto difficile per gli europei mantenerle unilateralmente in modo efficace; il che porrebbe tra l’altro la questione del destino degli averi russi che sono stati sequestrati e che si trovano in gran parte in Europa. Il secondo terreno è quello dell’embargo sull’esportazione verso la Russia di tecnologie critiche, embargo largamente aggirato dalla Russia, ma a un costo molto elevato e quindi nonostante tutto abbastanza efficace. Tutto può succedere, ma è difficile immaginare che persino Trump correrebbe il rischio dell’abolizione dell’embargo alla luce degli stretti rapporti che esistono fra la Russia e la Cina.
C’è infine la questione più importante per l’Europa: quella delle importazioni europee di idrocarburi russi, in particolare di gas. Importazioni mai completamente cessate, ma ormai molto minoritarie. È difficile prevedere la posizione americana a questo proposito; ci potrebbero essere motivazioni contrastanti che metterebbero in gioco l’interesse di Trump a calmare le pressioni inflazionistiche, ma d’altro canto la competitività del gas americano. Il buon senso e la coerenza dovrebbero portarci alla conclusione che in nessun caso l’Europa dovrebbe cedere a questa tentazione.
La seconda insidia è politica e forse anche più pericolosa. La parola “pace”, quali che fossero le sue reali condizioni e la sua credibilità, risveglierebbe le forze politiche e sociali che in vari paesi europei si sono finora opposte da posizioni di minoranza al sostegno all’Ucraina, oppure che l’hanno subito in silenzio, oppure che sono comunque fondamentalmente reticenti a lanciare i rispettivi paesi in uno sforzo di riarmo con innegabili costi politici oltre che finanziari; posizioni che hanno in comune l’argomento che un programma di rafforzamento della difesa europea ha senso solo se si considera reale e prioritaria la minaccia russa. In altri termini, si avrebbe un tentativo di mettere in discussione il consenso politico che si è creato finora, con il doppio argomento di compiacere l’alleato americano e che “con la Russia comunque bisogna convivere”.
Qual è la gravità del pericolo? Per cominciare, esso sarà tanto più ridotto quanto più avanzato e consolidato sarà il progetto di costruzione di una difesa comune. È comunque molto probabile che la Polonia, i paesi scandinavi e i baltici ne sarebbero esenti. Lo stesso vale probabilmente anche per il Regno Unito. All’altro estremo, il paese più vulnerabile è sicuramente l’Italia. “Sul piano economico a causa dei suoi antichi legami con la Russia, della sua recente dipendenza dalle importazioni di gas e della situazione dei suoi conti pubblici. Sul piano politico, entrerebbero in gioco la volontà di Giorgia Meloni di essere il più possibile vicina a Trump, la tradizionale posizione filo-russa di Salvini e la forte componente pacifista presente nell’opposizione; tutto sarebbe confortato dai sondaggi che mostrano un’Italia molto reticente della maggioranza degli europei nel sostegno all’Ucraina come per il progetto di riarmo. Una defezione dell’Italia, paese di cui l’appartenenza piena e convinta ai “volonterosi” non è del resto ad oggi ancora acquisita, sarebbe grave ma non catastrofica. Il successivo pericolo, molto più grave, è invece in Francia. La prospettiva di compiacere Trump non avrebbe nessun ruolo, ma le voci che reclamano una posizione più accomodante con la Russia sono forti sia a destra (non necessariamente solo estrema) che a sinistra. D’altro canto, la Francia è attualmente alla guida dei “volonterosi”; la caduta del progetto rappresenterebbe un colpo gravissimo per la posizione internazionale del paese.
È però ragionevole concludere che il paese chiave sarà la Germania. Le posizioni filo-russe vi sono tradizionalmente forti all’estrema destra ma anche fra i socialisti e persino nella CDU. Dopo tutto la politica che l’attuale strategia europea sta abbandonando è proprio quella ispirata per anni da Angela Merkel. Inoltre, uno degli elementi fondamentali del cambiamento di strategia sarebbe la riattivazione del gasdotto Nord Stream 2, le cui chiavi stanno in Germania. Forse con eccessivo ottimismo, sono però tentato di pensare che la maturazione delle convinzioni della coalizione che si appresta a governare e del suo futuro Cancelliere, sono sufficientemente profonde per non essere abbandonate in seguito ad avvenimenti che è già oggi possibile anticipare. Non si modifica la Costituzione per abbandonare dopo poco la strategia che ha ispirato il cambiamento. Si sarebbe quindi tentati di concludere che, se la Germania tiene la rotta, gli altri paesi e in particolare la Francia e forse l’Italia, non potranno fare altrimenti. In caso contrario, assisteremmo non solo ala conferma della profezia di Krastev, ma probabilmente anche a una crisi esistenziale del sistema europeo.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore, fra l'altro, dei volumi 'L'Unione europea: una storia non ufficiale' e 'Stare in Europa: Sogno, incubo e realtà'