La Corte Suprema americana e il passato che non passa

Certo, sembra assurdo – con Dobbs vs. Jackson che fa l’overruling di Roe v. Wade (1973) – che la libertà di scelta delle donne in tema di interruzione di gravidanza non sia più garantita in modo eguale su tutto il territorio federale degli Stati Uniti, ma che dipenda, invece, dalle singole legislazioni adottate Stato per Stato.

Certo, sembra assurdo che, con Nysrpa vs. Bruen, si impedisca ad uno Stato di condizionare a valutazioni selettive soggettive o arbitrarie (la c.d. proper cause) il rilascio del permesso di portare armi da fuoco in pubblico, perché questo è garantito soggettivamente a tutti i cittadini, a prescindere dalle loro condizioni psico-fisiche, dal Secondo Emendamento alla Costituzione.

Certo – ultimo ma non da ultimo – sembra assurdo che, nel caso ancora aperto Merrill v. Milligan (Dockets 21–1086, 21–1087) relativo alla riorganizzazione dei distretti in Alabama ai sensi del Voting Rights Act del 1965, la Corte Suprema clamorosamente abbia deciso intanto di non decidere su un già riconosciuto come palesemente distorto ridisegno territoriale dei seggi congressuali dell’Alabama per le elezioni di mid-term del prossimo novembre; perché – dice la Corte – i cambiamenti elettorali che avvengono troppo a ridosso di un’elezione confondono gli elettori. Dunque, meglio attendere il loro esito, e poi eventualmente misurarne gli effetti distorsivi.

Inutile dirsi allora che si potrebbe continuare ancora nell’evidenziare quanto le più recenti decisioni e prese di posizione della Corte Suprema americana, soprattutto a far data dalle tre nomine trumpiane, stiano moltiplicando i conflitti politici all’interno di una società già in sé molto divisa, come le audizioni della Commissione del Congresso sull’attacco del 6 gennaio 2021 al Campidoglio sta mostrando con cruda chiarezza.

Gli Stati Uniti verso la regressione civile

C’è qualcosa di più del merito, pur molto rilevante, allora da considerare in quelle decisioni. Qualcosa che va ben oltre quella strategia di politica del diritto di tipo “originalista”, ossia quella che vede la ricerca dell’intento originario dei Costituenti come obiettivo interpretativo che la Corte debba perseguire, riprendendo la nota dottrina proposta in primis dal giudice Antonin Scalia.

Perché queste decisioni sono evidentemente un mezzo, non il reale fine. Il fine è un altro, di più ampia dimensione. Grazie ad una maggioranza interna alla Corte di tipo estremista e non più soltanto meramente conservatrice (come si evince dalla scelta di operare una concurring opinion in Dobbs vs. Jackson da parte dello stesso Presidente della Corte John Roberts, notoriamente conservatore), l’obiettivo è infatti quello di far tornare gli Stati Uniti, per il tramite di un’interpretazione radicale da parte dei giudici supremi, ad una fase precedente della sua storia, regredendola cioè a prima del consolidamento della Federazione sugli Stati membri: ai tempi, insomma, della guerra civile americana (1861-1865), detta anche – non a caso – guerra di secessione.

Per questa ragione, come è stato acutamente scritto di recente dallo storico Arnaldo Testi: «Questa Corte non cerca il containment, cerca il roll-back». Ed è su quel ritorno ad un passato-che-non-passa che si sta giocando allora quello che i nostri occhi stanno vedendo.

L’ordinamento statunitense in discussione

Non è dunque in tema soltanto la credibilità della stessa Corte Suprema, come taluni pur comprensibilmente sostengono. Dopo queste decisioni è in questione la legittimazione in sé, in modo sempre più crescente, dell’intero ordinamento statunitense, stretto in un conflitto che fatica senza ombra di dubbio a trovare un accettabile equilibrio innanzitutto tra Unione federale e Stati membri. Quello che con il sangue prima che con la politica, allora, venne faticosamente trovato. E poi progressivamente rafforzato e consolidato.

Così, con l’assalto al Congresso nel giorno della certificazione elettorale dei risultati, si è contestata l’elezione del Presidente, nonostante in questo caso sia stata scongiurata per il vincitore Biden l’asimmetria politica tra i voti dei delegati dell’Electoral College e quelli popolari. Così si è paralizzato il confronto al Congresso, arrivando a minacciare il superamento di regole tanto consolidate quanto storicamente condivise, come il filibustering, pur di arrivare a decidere.

Così si sta arrivando addirittura ad immaginare il Court-packing, cioè la volontà di modificare con una legge la composizione della Corte Suprema per riequilibrarla in linea con l’indirizzo politico presidenziale, pur di non vedere smantellato l’assetto dei diritti garantiti a livello federale. Anche in questo caso, come è evidente, si potrebbe insomma continuare con gli esempi, dentro uno stato permanente di “culture war”.

Alla ricerca di una nuova unità

Di fronte a tutto ciò, allora, cosa si può dire? Che può stare solo nel profondo di quel Paese, storicamente attraversato da faglie sociali da sempre assai radicate e diversificate, la forza di voler ritrovare le ragioni della sua unità. E che dunque, proprio nel sollecitare ciò – al netto delle prossime mid-term che storicamente vanno male per il Presidente in carica -, vi è il senso profondo di una presidenza chiamata davvero a tentare di riunire l’America per curarla dai suoi demoni.

La poesia ancora una volta vince sulla prosa allora: perché non aveva torto la giovane poetessa Amanda Gorman a denunciare, nel giorno del giuramento presidenziale, che il tempo di fare i conti con le questioni rimaste per troppo tempo nell’oscurità era arrivato. E che non lo si sarebbe potuti evitare.  La Corte Suprema – in effetti – ce lo ha ribadito.

Foto di copertina EPA/MICHAEL REYNOLDS

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