Il governo di Giorgia Meloni ha rivendicato con soddisfazione il calo nel numero degli arrivi irregolari di migranti verificatosi nel corso del 2024. Dall’inizio dell’anno, infatti, circa 45.000 persone hanno raggiunto l’Italia, in netta diminuzione rispetto agli oltre 132.000 sbarcati sulle coste italiane nello stesso periodo dell’anno precedente. Alla fine del 2023, il dato complessivo sarebbe stato di circa 157.000 arrivi. Si trattava del culmine di una crescita nel numero di arrivi via mare iniziata in realtà già nel 2020 e intensificatasi a partire dall’autunno del 2022, proprio in concomitanza con la salita al governo di Meloni. Non a caso, il nuovo esecutivo è entrato in carica con il chiaro mandato elettorale di limitare il fenomeno migratorio.
Gli accordi sulle migrazioni dell’Italia
L’intensificazione degli arrivi dell’anno scorso è stata accompagnata da un cambiamento nel contesto migratorio affrontato dall’Italia. Per anni, infatti, la Libia è stato il principale punto di partenza per migranti e richiedenti asilo che tentano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo Centrale. Tuttavia, tra il 2022 e il 2023, la Tunisia è diventata il punto di partenza per la maggioranza dei migranti diretti verso l’Italia. Anche il profilo nazionale delle persone che raggiungevano il paese cambiava: se la presenza di cittadini tunisini è rimasta una costante negli anni, cresceva in quel periodo il numero di persone provenienti da paesi dell’Africa subsahariana, come Costa d’Avorio e Guinea, in transito attraverso la Tunisia. Al momento, la situazione è tornata ad assestarsi su binari più tradizionali, con il ritorno della Libia come principale luogo di partenza. Tuttavia, il contesto migratorio sviluppatosi nei primi mesi d’azione del governo Meloni ha fortemente condizionato le sue scelte, che hanno infatti privilegiato la dimensione esterna delle politiche migratorie.
Il governo si è mosso per rafforzare quello che è stato identificato come il principale strumento dell’Italia per ridurre le partenze irregolari (ed eventualmente aumentare il numero dei rimpatri): la collaborazione con i governi dei paesi della sponda sud del Mediterraneo. L’Italia è stata quindi uno dei principali sponsor degli accordi che l’Unione europea ha siglato con una serie di paesi mediterranei fra il 2023 e il 2024, dal Libano all’Egitto, fino alla Mauritania. La priorità è stata data però al Protocollo d’Intesa firmato nel luglio 2023 con la Tunisia. L’accordo copre diversi ambiti, dall’agricoltura all’energia, rappresentando un tassello benvenuto per la cooperazione bilaterale. Tuttavia, è evidente come l’investimento politico e finanziario maggiore sia stato destinato al dossier migratorio.
L’Ue, su spinta italiana, è quindi scesa a patti con un governo dalle tendenze sempre più autoritarie, quello di Kais Saied, che negli ultimi anni ha fortemente compresso gli spazi democratici nel paese e ha anche favorito una campagna di discriminazione, sfociata in veri e propri episodi di violenza, contro i migranti subsahariani che transitano o risiedono nel paese. Saied non si è dimostrato un partner facile, avanzando più di una rimostranza circa i contenuti dell’accordo: la Tunisia si rifiuta di accogliere i migranti rimpatriati dall’Europa o di gestire le proprie frontiere per conto terzi.
Allo stesso tempo, nei primi mesi del 2024, il numero di migranti intercettati in mare dalle autorità tunisine è aumentato sensibilmente, contribuendo alla diminuzione degli arrivi in Italia. Tuttavia, con questa mossa, l’Ue si espone al rischio di dipendere da un attore esterno poco affidabile, rendendo questa politica di esternalizzazione dei confini poco sostenibile nel lungo periodo. Inoltre, l’Ue accetta implicitamente che la riduzione delle partenze dalla Tunisia avvenga a costo di violazioni dei diritti dei migranti ancora presenti o riportati in Tunisia. Un costo che, d’altro canto, l’Italia affronta consapevolmente da anni anche per quanto riguarda gli accordi con la Libia e, più di recente, con l’Albania. Alla base di questi accordi vi è il principio della deterrenza. Misure ispirate da questo principio non tengono però in conto i molteplici fattori di rischio presenti nei paesi di origine e transito, a partire dalle conseguenze del cambiamento climatico.
Le mosse del governo italiano in Africa si inseriscono in un più ampio quadro europeo che ha visto Roma negoziare con gli altri Stati membri l’adozione del già citato Nuovo Patto, che nelle intenzioni dovrebbe riformare profondamente il funzionamento delle politiche migratorie europee. L’Italia, in quanto paese di primo ingresso per i migranti che raggiungono l’Ue, ha visto aumentare le proprie responsabilità nella gestione dei richiedenti asilo. In cambio, insieme agli altri paesi in prima linea sul Mediterraneo, ha ottenuto l’impegno a misure di solidarietà obbligatorie ma flessibili: gli altri Stati membri potranno decidere se collaborare accettando il ricollocamento di alcuni richiedenti asilo o contribuendo finanziariamente o tramite altre capacità operative.
Il governo Meloni considera il Nuovo Patto una vittoria per l’Italia, poiché è stato accompagnato dal rilancio dell’investimento dell’Ue nella dimensione esterna per ridurre le partenze, come dimostrano gli accordi menzionati in precedenza. In effetti, l’Ue sta perseguendo questa strada con una certa coerenza, nonostante questo approccio non costituisca certo una novità: è almeno dalla crisi migratoria di alcuni anni fa che l’Europa investe nelle relazioni con i paesi terzi per bloccare le partenze dall’Africa verso l’Italia e l’Europa. Queste azioni sono state spesso sostenute dai fondi per la cooperazione allo sviluppo bilaterale ed europea, spesso indirizzata verso l’Africa.
Cooperazione al servizio delle politiche migratorie
Un esempio emblematico dell’uso sempre più espansivo di investimenti nella dimensione esterna da parte dell’Ue e dei suoi Stati membri riguarda il cambiamento climatico come fattore di migrazione “di massa” in grado di destabilizzare l’assetto europeo. L’Unione e i suoi Stati membri non negano infatti che i disastri, il cambiamento climatico e il degrado ambientale abbiano un impatto sulla mobilità umana. Tuttavia, la maggior parte dei loro sforzi per prevenirne gli effetti in ambito migratorio si limita ad azioni di politica estera, in particolare progetti e misure di adattamento e mitigazione da attuare in Paesi terzi particolarmente esposti ai fattori climatico-ambientali. Al contrario, gli Stati membri risultano particolarmente restii nell’offrire uno status di protezione per le persone costrette a lasciare il proprio Paese a causa di questi fattori. Lo dimostra il fatto che nel 2021 Svezia e Finlandia, due dei pochissimi Stati europei a riconoscere protezione per cause climatico-ambientali, abbiano abrogato le rispettive norme in materia, temendo i flussi migratori che queste forme di protezione avrebbero potuto generare negli anni a venire.
La reticenza degli Stati Ue a fornire protezione è in parte motivata dal fatto che l’azione esterna dell’Ue in tema di cooperazione allo sviluppo viene spesso utilizzata come strumento per prevenire la migrazione verso l’Europa. Questo risulta particolarmente evidente se si guarda a come i Paesi europei spendono i propri fondi bilaterali di aiuto pubblico allo sviluppo (APS, in inglese Official Development Assistance). Gli APS sono risorse pubbliche utilizzate dallo Stato per finanziare attività e progetti di cooperazione in Paesi in via di sviluppo, al fine di eradicare la povertà e migliorare il livello di benessere del Paese beneficiario. I fondi impiegati consistono solitamente in prestiti agevolati (che possono essere rendicontati come fondi concessi a dono, prestiti agevolati e prestiti meno agevolati). Il comitato DAC (Development Assistance Committee) dell’OCSE monitora la corretta rendicontazione degli APS nonché la loro conformità con le regole OCSE.
Già nelle conclusioni della Conferenza internazionale su migrazione e sviluppo organizzata dal governo italiano nel luglio 2023, Meloni sottolineava il nesso tra cambiamento climatico e migrazioni, evidenziando la necessità di facilitare la transizione verde e la resilienza climatica in Africa. Tuttavia, per comprendere appieno il ruolo della cooperazione italiana nella gestione della migrazione indotta da fattori climatico-ambientali è necessario tenere in considerazione due voci di spesa nell’ambito degli APS bilaterali: i cosiddetti in-donor refugee costs e i costi associati al clima.
La prima voce è particolarmente aumentata nel corso degli anni: nel 1992 ammontava al 2% degli APS bilaterali disponibili a livello globale, mentre nel 2023 ha raggiunto il 13.8% (o 30.9 miliardi di dollari), secondo fonti OCSE. Tuttavia, l’aumento del numero di crisi umanitarie e conflitti nel mondo negli ultimi due decenni non è sufficiente a giustificare tale impennata. Altre due ragioni devono essere considerate per completare il quadro. Innanzitutto, negli ultimi anni, gli Stati donatori hanno cominciato a catalogare come in-donor refugee costs non solo i costi relativi all’accoglienza e alla protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo nei Paesi in via di sviluppo, ma anche quelli associati a rifugiati e richiedenti protezione che si trovano nei loro stessi territori. In pratica, i Paesi del Nord Globale, inclusi i Paesi Ue e l’Italia, utilizzano i loro fondi APS per pagare le proprie spese di gestione dei flussi migratori in entrata. È difficile comprendere come il “rimborso” delle proprie spese di gestione dei flussi possa essere considerato come aiuto allo sviluppo in Paesi meno abbienti. Inoltre, per lungo tempo, il comitato DAC ha sostenuto la necessità di escludere tali costi dagli APS, in quanto questi dovrebbero teoricamente supportare spese strettamente legate a politiche di cooperazione e sviluppo, mentre i costi associati all’accoglienza e alla protezione degli stranieri riguardano più le politiche amministrative e di welfare, ben lontane dalla cooperazione. Infine, non si può trascurare che gli Stati Ue cercano di far passare misure di deterrenza dei flussi migratori come in-donor refugee costs, in violazione delle regole e principi OCSE che vietano di finanziare azioni anti-migratorie. In questo senso, potrebbero essere considerati anche l’accordo con la Tunisia e altri interventi concordati da Ue e Italia con diversi paesi africani.
Per quanto riguarda gli impegni assunti in ambito climatico tramite gli APS, nel 2021-22 questi rappresentavano il 32.9% degli APS bilaterali totali. Di questa percentuale , il 34% era destinato a misure di adattamento al cambiamento climatico, il 37% a misure di mitigazione e il 29% ad azioni comprensive di entrambi gli obiettivi. La mitigazione riguardava principalmente i trasporti e l’energia, mentre l’adattamento si concentrava maggiormente su agricoltura, silvicoltura e pesca. La migrazione causata da fattori climatico-ambientali non viene, tuttavia, mai menzionata.
Nel 2022, l’APS bilaterale italiano ammontava a 3.6 miliardi di dollari (+46.8% rispetto al 2021 secondo fonti OCSE). Di questi, 1.5 miliardi sono stati utilizzati per finanziare i propri in-donor refugee costs. Ciò significa che il 41% dell’APS bilaterale lordo totale dell’Italia è stato destinato a coprire i costi relativi ai flussi migratori, decretando un aumento del 190.5% rispetto al 2021. È la percentuale più alta registrata in quell’anno tra tutti i Paesi dell’Europa meridionale.
L’Africa si conferma una priorità italiana, ricevendo 641.3 milioni di dollari, pari al 17.8% dell’APS bilaterale lordo disponibile. I principali Paesi beneficiari sono Tunisia, Mozambico, Etiopia, Egitto e Libia, ossia alcuni tra i principali Paesi di transito dei flussi migratori diretti verso l’Europa e ricchi di materie prime (soprattutto energetiche). Per quanto riguarda gli obiettivi climatici, l’Italia ha allocato solamente il 24.5% dei propri APS bilaterali a tale voce, ben al di sotto della media indicata dal comitato DAC fissata al 35.1%.
Il Piano Mattei per l’Africa
In questo contesto si inserisce il Piano Mattei per l’Africa, attraverso il quale il governo italiano intende innescare un cambio di paradigma nelle relazioni con il continente africano, costruendo un partenariato paritario, lontano da approcci paternalistici, compassionevoli o predatori. La migrazione e la lotta al cambiamento climatico emergono come priorità centrali nel Piano. Ciò si evince dal discorso di apertura di Giorgia Meloni al Vertice Italia-Africa del 29 gennaio 2024, dove si afferma che il Piano intende limitare le cause strutturali “dell’immigrazione illegale di massa” attraverso la realizzazione di opportunità, lavoro, formazione e percorsi di migrazione legale. Allo stesso modo, molte linee d’intervento del Piano mirano a migliorare la resilienza climatica e a rafforzare il settore agricolo ed energetico, innescando così una giusta ed equa transizione verde nel continente africano (in linea con l’accordo con la Tunisia). Per finanziare il Piano Mattei, l’Italia ha stanziato 5.5 miliardi di euro, grazie ai fondi della cooperazione allo sviluppo e del Fondo Italiano per il Clima. Dalla prima dovrebbero arrivare risorse per 2.5 miliardi di euro da destinarsi a interventi sociali ed economici in conformità con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile assunti dai Paesi africani. Il Fondo per il Clima, invece, prevede prestiti concessionari per programmi di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico nei paesi in via di sviluppo.
Nonostante queste premesse, molte organizzazioni della società civile temono che il principale strumento di cooperazione italiana in Africa possa trasformarsi in un meccanismo di controllo delle migrazioni nel continente. In effetti, nel Piano si sottolinea che il macro-obiettivo è garantire ai giovani africani “il diritto a non dover emigrare”. Tuttavia, la scelta di focalizzarsi sui principali Paesi di origine e transito dei flussi migratori, nonché quelli ricchi di risorse energetiche (Costa d’Avorio, Algeria, Egitto, Mozambico, Tunisia, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo, Kenya, Marocco), potrebbe corroborare la tesi per cui il Piano Mattei potrebbe seguire più gli interessi nazionali dell’Italia al fine di raggiungere l’indipendenza energetica dalla Russia e il controllo delle migrazioni, piuttosto che promuovere lo sviluppo dei Paesi destinatari dei fondi.
Le linee di intervento, i progetti e le azioni del Piano Mattei sono stati finora definiti in modo vago e superficiale, impedendo un’approfondita valutazione dell’impatto del Piano sullo sviluppo del continente africano e, in particolare, sulla tutela dei migranti in fuga da fattori climatico-ambientali. Poche sono le informazioni rese pubbliche, segno di una limitata trasparenza e di un lacunoso approccio consultivo con le organizzazioni della società civile italiane e africane.
La cooperazione italiana, di cui il Piano Mattei è prima espressione, appare quindi totalmente sbilanciata verso la gestione dei flussi migratori, mentre la lotta al cambiamento climatico risulta ben al di sotto degli obiettivi prefissati a livello internazionale e la crescita dei Paesi in via di sviluppo rimane sullo sfondo. Il rischio è dunque che le azioni in questi ambiti chiave siano subordinate sempre di più agli obiettivi a breve termine nella dimensione esterna delle politiche migratorie, a partire dalla riduzione degli arrivi irregolari.