Israele e la guerra ai suoi nemici

Israele sostiene di difendersi da nemici determinati a distruggerlo, da Hamas in Palestina a Hezbollah in Libano fino all’Iran. Non c’è dubbio che si tratti di nemici irriducibili. È altrettanto vero però che nel corso dei decenni Israele non ha mancato l’occasione per fomentare il radicalismo dei suoi avversari, marginalizzando le voci più pragmatiche. Israele ha così deliberatamente fuso autodifesa ed espansione nei territori palestinesi, senza che Usa ed Europa abbiano opposto alcun argine.

Controversie di un processo di pace

Nel febbraio 1994, un uomo di nome Baruch Goldstein sparò su un gruppo di fedeli musulmani riuniti in preghiera nella Tomba dei Patriarchi a Hebron, uccidendo 29 palestinesi e ferendone 125. Goldstein era un americano naturalizzato israeliano legato alle frange più estreme del sionismo, che spingevano per l’annessione delle terre palestinesi occupate e la rimozione forzata degli abitanti.

L’attentato rivelò quanto controverso fosse in Israele il processo di pace avviato a Oslo. Il fronte dei contrari abbracciava tanto gli estremisti come Goldstein quanto il partito di opposizione Likud, il cui leader, Benjamin Netanyahu, era e sarebbe rimasto per sempre contrario a uno stato palestinese. Nemmeno l’assassinio del premier Yitzhak Rabin, uno degli architetti di Oslo, da parte di un estremista ortodosso nel 1995 ricompattò la leadership israeliana.

Gli ultimi barlumi di speranza si spensero con la vittoria elettorale, a inizio 2001, del neo-leader del Likud, Ariel Sharon, che aveva lavorato al sabotaggio dei nuovi negoziati di pace a Camp David e Taba. Hamas, che aveva denunciato Oslo come un inganno, lanciò una campagna di attacchi kamikaze che sfociò nella Seconda Intifada. La rivolta accrebbe la credibilità di Hamas come autentica forza di resistenza anti-occupazione, in contrasto con un’Autorità Palestinese (l’embrione di stato costituito a Oslo) debole, corrotta e compromessa con Israele. Ma per la causa palestinese è stata un disastro.

Israele e la narrazione del diritto all’autodifesa

Nel clima di generale diffidenza nei confronti dell’Islam politico successivo all’11 settembre, le tattiche terroristiche di Hamas contribuirono a delegittimare le rivendicazioni dei palestinesi agli occhi di Stati Uniti ed Europa. Questa percezione si è rafforzata man mano che Hamas – estromessa dalla Cisgiordania dopo aver vinto le elezioni parlamentari ma in controllo di Gaza dal 2007 – si è legata progressivamente all’Iran e al suo asse di resistenza anti-americana.

È in questo contesto che il diritto all’autodifesa invocato da Israele diventa onnicomprensivo. La presenza di Hamas giustifica la quasi totale subordinazione di Gaza a Israele (che ne controlla spazio aereo e marino, e gli ingressi via terra, eccetto al confine con l’Egitto) e le continue operazioni militari, che secondo l’Onu fra il 2008 e settembre 2023 causano la morte di oltre 6400 palestinesi (molti dei quali civili), a fronte di circa trecento israeliani uccisi.

L’autodifesa è invocata anche quando, nell’agosto 2006, Israele invade nuovamente il Libano nel tentativo di distruggere Hezbollah, in una campagna che causa la morte di 1100-1200 persone, di cui circa 250 miliziani. Anche l’opposizione israeliana a ogni forma di ingaggio diplomatico di Usa e Ue con l’Iran sul fronte nucleare viene giustificata in modo simile.

Stati Uniti ed Europa accettano largamente la narrazione israeliana di uno stato sulla difensiva. Grazie alla formidabile influenza della lobby pro-Israele – che include un mix di sionisti di ogni colore politico, evangelici e neoconservatori – negli Usa dichiarare incondizionato sostegno a Israele diventa condizione imprescindibile per avere una carriera politica di altro profilo, pena l’accusa infamante di antisemitismo. Gli europei seguono pedissequamente, abbandonando oltre vent’anni di diplomazia bilanciata e autonoma avviata con la Dichiarazione di Venezia che per la prima volta aveva sostenuto il doppio diritto di Israele a vivere in sicurezza e dei palestinesi all’autodeterminazione.

Israele agisce in apparente impunità, protetto dal veto Usa nel Consiglio di Sicurezza Onu e premiato con appoggio diplomatico, forniture di armi (soprattutto da Usa e Germania), accordi di partnership in ogni campo, dalla difesa alla ricerca. Israele è considerato un alleato anche se non si allinea alle sanzioni contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, continua a commerciare in alta tecnologia con la Cina, e lavora contro gli obiettivi dichiarati di due amministrazioni Usa (Obama e Biden) come l’accordo nucleare con l’Iran e la soluzione dei due stati in Palestina.

Questa dinamica si è ripetuta su larga scala dopo il 7 ottobre. Di nuovo Usa ed Europa hanno invocato a gran voce il diritto sacrosanto di Israele a proteggere la sua popolazione. Tuttavia, non sanno spiegare come questo diritto si accordi con la devastazione inflitta ai due milioni di persone che vivono a Gaza, dove i bombardamenti hanno ucciso più di quarantamila persone (di cui 16500 bambini), costretto il 90% della popolazione a sfollare (quasi due terzi delle abitazioni sono state danneggiate o distrutte), mentre giornalisti, personale medico e cooperanti sono stati apparentemente colpiti in maniera deliberata.

Né Israele o i suoi sostenitori sono in grado di spiegare perché la sua sicurezza giustifichi la continua espansione a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, l’espropriazione delle case, la sottrazione di terre e la decennale oppressione sistematica di milioni di esseri umani, che la Corte di giustizia internazionale ha definito illegale in ogni suo aspetto.

Dal massacro di Hebron del 1994 l’espansione israeliana in terre palestinesi non si è mai arrestata. La politica interna israeliana si è radicalizzata al punto che oggi nessun partito con un minimo di seguito favorisce un negoziato coi palestinesi. Al contrario, la Knesset ha approvato una risoluzione che definisce uno stato palestinese come un “pericolo esistenziale”.

I partiti estremisti che caldeggiano esplicitamente la pulizia etnica hanno enorme influenza sulla politica verso i palestinesi. Itamar Ben-Gvir, un ammiratore del massacratore di Hebron, è oggi ministro del governo Netanyahu. Un altro estremista, Bezalel Smotrich, è ministro responsabile per la ‘sicurezza’ della Cisgiordania. Non sorprende che, dal 7 ottobre in poi, le violenze in Cisgiordania siano aumentate esponenzialmente: circa 690 palestinesi sono stati uccisi, di cui 159 bambini.

Il progetto di Netanyahu e l’‘impotenza’ dell’Occidente

In definitiva, quando si parla della difesa di Israele, ciò che è in ballo non è tanto la sicurezza dello stato sui confini del 1967 (quelli generalmente accettati a livello internazionale) quanto un progetto di espansione etno-suprematista e profondamente razzista. Netanyahu ha di fatto sposato questo progetto non solo per ideologia ma anche per vantaggi pratici, visto che la coalizione lo ha protetto da una serie di processi per frode elettorale e altro.

È in questo intreccio di interessi ideologici estremisti e personali che va ricercata la strategia del governo Netanyahu: niente cessate-il-fuoco a Gaza, anche a costo della vita degli ostaggi; e apertura del fronte nord contro Hezbollah, un’azione del resto appoggiata dalla leadership militare (che invece avrebbe voluto un accordo sugli ostaggi) e che ora si è allargata all’Iran dopo la rappresaglia di quest’ultimo contro Israele. Solo la guerra può lavare l’onta del 7 ottobre (e tenere i processi lontani), e solo la guerra consente a Israele di continuare a espandersi a est, fino a controllare tutta la terra fra il fiume e il mare. L’imminente scontro frontale con l’Iran servirà, nelle intenzioni di Netanyahu, a creare un ordine regionale nel quale questo disegno possa avanzare senza ostacoli.

I governi di Stati Uniti e Ue hanno da tempo stabilito che i loro obiettivi principali sono il cessate-il-fuoco a Gaza, la liberazione degli ostaggi e la prevenzione di un’escalation regionale. Inoltre, sostengono la creazione di uno stato palestinese e affermano che gli insediamenti israeliani sono un ostacolo alla pace. Dal momento che Israele non solo ha ignorato i loro interessi, ma li ha anche minati, uno si aspetterebbe che la loro politica prevista fosse quella di combinare la pressione sui nemici di Israele con quella su Israele stesso.

Ci si aspetterebbe che gli Stati Uniti e l’Europa insistano su un cessate-il-fuoco a Gaza come priorità più urgente. La principale superpotenza mondiale e i suoi ricchi alleati potrebbero sostenerlo con l’interruzione dei trasferimenti di armi a Israele e con la condanna della sua condotta in tutte le terre palestinesi e in Libano, dove i civili muoiono a centinaia nella campagna israeliana contro Hezbollah e l’intera popolazione è stata terrorizzata dai servizi segreti israeliani con trappole esplosive sotto forma di cercapersone e walkie-talkie. Gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero anche insistere sulla riapertura della Striscia di Gaza ai giornalisti, sulla protezione delle strutture mediche e degli operatori umanitari e sulla ripresa degli aiuti umanitari su vasta scala.

Soprattutto, ci si aspetterebbe che i politici Usa ed europei delegittimassero la visione razzista ed etno-suprematista che è sempre più dominante nel discorso israeliano sui palestinesi. Ben-Gvir e Smotrich dovrebbero essere sanzionati e tutte le organizzazioni governative e della società civile attive nel sostegno e nell’espansione degli insediamenti israeliani a Gerusalemme Est e in Cisgiordania dovrebbero essere oggetto di blocco dei visti, sanzioni finanziarie e altre restrizioni.

L’‘impotenza’ di Usa ed Europa in Levante, l’incapacità di influenzare gli eventi in base ai loro obiettivi dichiarati, discende dall’aver interiorizzato la narrazione dell’onnicomprensivo diritto all’autodifesa di Israele, oggi ulteriormente rafforzata dal successo contro Hezbollah. Mentre Israele prova a ridisegnare gli equilibri regionali con la forza, i governi occidentali sembrano spettatori passivi di un dramma decennale nel quale, invece, hanno grandi responsabilità.

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