Il viaggio a Washington e il dilemma di Meloni

Il compito che aspetta la premier Giorgia Meloni durante la sua visita lampo a Washington è il più classico degli esercizi di equilibrismo. Meloni dovrà allo stesso tempo difendere gli interessi commerciali italiani, ribadire la prossimità dell’Italia agli Stati Uniti ed evitare di creare una frattura interna all’Ue. Il compito è arduo, visto che si tratta di obiettivi difficili da raggiungere e ancor più difficili da conciliare.

Il costo delle tariffe per l’Italia

L’Italia è uno dei paesi più esposti ai dazi sulle importazioni dall’Ue adottati da Donald Trump il 2 aprile, poi parzialmente sospesi dopo preoccupanti scricchiolii del mercato obbligazionario. Gli Stati Uniti assorbono il 10% delle esportazioni italiane e dal 2023 sono diventati il secondo mercato di destinazione dei nostri beni, per un valore che l’anno scorso ha superato i 64,7 miliardi di euro.

Se l’amministrazione Trump dovesse confermare il dazio del 20% sull’Ue dopo lo scadere della pausa a luglio, le perdite per gli esportatori italiani sarebbero significative. I settori più colpiti includono macchinari e apparecchiature, prodotti farmaceutici, automotive e mezzi di trasporto, oltre che prodotti chimici, tessili e agroalimentare. Né il quadro sarebbe tanto più roseo se si dovesse restare alla soglia attuale del 10% (era di circa l’1% prima del 2 aprile), a cui vanno aggiunti i dazi del 25% su alluminio, acciaio e autovetture. Ancor più preoccupante è la prospettiva che le tariffe generino un rallentamento della crescita globale. Il governo Meloni ha già dimezzato le prospettive di crescita per quest’anno.

Approccio unilaterale o europeo

Il governo è notoriamente scettico sull’efficacia di adottare controtariffe, sostenendo che l’effetto sarebbe quello di aggiungere danno a danno. Si è sempre detto a favore di una via negoziale. Questa è una posizione al momento in linea con quella della Commissione europea, che ha deciso di mettere da parte una rappresaglia contro le tariffe del 2 aprile e sospendere l’attuazione delle contromisure in risposta ai dazi su acciaio, alluminio e auto che erano già state approvate, nel tentativo di approfittare della pausa annunciata da Trump per trovare un compromesso. Tuttavia, il commissario al commercio Maroš Šefčovič e il suo team per il momento non hanno ottenuto nulla dall’amministrazione Trump, se non la conferma che un certo livello di dazi resterà senz’altro. Questo rende il compito di Meloni ancora più ingrato.

La coalizione di governo ospita, come è noto, opinioni contrastanti. La Lega di Matteo Salvini spinge per un negoziato bilaterale, mentre Forza Italia insiste sulla necessità di una posizione coordinata con l’Ue. La prima strada è impraticabile perché la politica commerciale è competenza esclusiva dell’Unione. Inoltre, cercare esenzioni per i prodotti italiani creerebbe una frattura interna all’Ue, isolerebbe l’Italia e ne ridurrebbe l’influenza nei negoziati su dossier cruciali come l’eventuale rilassamento del Patto di stabilità e crescita o il ricorso a risorse comuni per sostenere gli investimenti in difesa. È plausibile pertanto che Meloni cerchi un’interlocuzione con Washington su questioni su cui ritiene possibile possa avere sostegno da almeno una parte dei suoi partner europei.

Può ben essere che Meloni ribadisca di essere a favore dell’idea di un’area commerciale industriale a zero tariffe già avanzata dalla Commissione, pur sapendo che non c’è alcuno spazio. Ma il suo messaggio centrale non può che essere l’insistenza sul rafforzamento della relazione transatlantica battendo su due tasti: la competizione con la Cina e un accordo per aumentare le importazioni di beni americani nell’Ue.

Un fronte su cui questi obiettivi possono essere conciliabili è quello delle tecnologie della comunicazione: dal 5G a Starlink, il sistema di comunicazione satellitare di Elon Musk, l’amministrazione Trump inquadra l’acquisto di beni americani come una scelta di campo fra Washington e Pechino per gli europei. Gli americani sono anche interessati ad aumentare le vendite agli europei di gas naturale liquefatto (gnl) e sistemi d’arma. Né è un segreto che l’amministrazione vede le regolamentazioni Ue in campo digitale, ambientale e alimentare come discriminatorie verso compagnie ed esportatori americani.

Margini di manovra limitati

A meno che non si decida per la linea unilaterale favorita dalla Lega, lo spazio di manovra di Meloni è limitato. L’accettazione delle richieste americane risulterebbe in un ulteriore aumento della dipendenza europea dagli Stati Uniti in un momento in cui la domanda di una maggiore autonomia è diventata più urgente.

Il governo italiano potrebbe superare le sue stesse reticenze ad adottare Starlink, ma altri governi europei sono riluttanti a dare un’influenza strutturale a un tecno-miliardario che non esita a interferire direttamente nella loro politica interna appoggiando partiti di estrema destra e promuovendo disinformazione anti-Ue. Il tema della sovranità digitale e tecnologica del resto è sempre più presente nel dibattito interno all’Ue e non è un caso che la Commissione abbia escluso la possibilità di rivedere le leggi europee che regolamentano la concorrenza sui mercati digitali (Digital Markets Act) e impongono ai giganti dell’high-tech di vigilare sui contenuti diffusi sulle piattaforme social (Digital Services Act). È anche impossibile o quasi un allentamento delle barriere all’importazione di prodotti agricoli americani trattati con ormoni o lavati col cloro o cresciuti con organismi geneticamente modificati.

Dove la premier italiana può avere più spazio di manovra in Europa è sul fronte dell’acquisto di GNL americano, in teoria utile a compensare la riduzione delle importazioni dalla Russia, sebbene decisamente più caro. Meloni potrebbe anche promettere di incoraggiare acquisti europei di armi americane, anche se le scarse spese per la difesa non fanno dell’Italia il candidato ideale per perorare la causa. Meloni potrebbe promettere a Washington di battersi per un’applicazione meno aggressiva delle regolamentazioni digitali (cosa che in parte la Commissione sta già facendo), contro la tassazione di Big Tech (una questione nazionale ma che ha peso nel dibattito europeo), e per la rimozione o quantomeno rilassamento delle regolamentazioni ambientali (invise anche a molti attori industriali europei).

Mission impossible?

In definitiva, per Meloni esiste uno spazio di convergenza fra interessi americani ed europei che riflette tanto la sua visione strategica, quanto le sue convinzioni ideologiche. Meloni è persuasa che i paesi europei non possano che far parte di un ordine euro-atlantico centrato su Washington, e che se Washington cambia rotta sia dovere degli europei adeguarsi invece di inseguire la chimera di una maggiore autonomia.

Questo ben si concilia con la sua idea di Occidente come una comunità di nazioni di origine europea, legate fra loro non tanto dai valori universalistici della liberaldemocrazia quanto da storia, tradizioni e radici religiose, una civiltà che deve serrare i ranghi per proteggersi internamente dai migranti e dalle élite globaliste ed esternamente dalla Cina.

Il problema per Meloni è che questa amministrazione americana, pur ospitando un’ideologia affine alla sua, sembra assai poco disposta a venire incontro alle sensibilità dei paesi europei, che vuole non solo allineati ma anche divisi e deboli.

Meloni finora si è dimostrata abile a navigare le acque di uno spazio atlantico in tempesta, e non si può escludere che torni da Washington con qualcosa in mano. Ma alla lunga conciliare le sue convinzioni ideologiche e strategiche con l’interesse italiano in un commercio più aperto e in un’Europa più coesa e resiliente può diventare una missione impossibile.

Coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Istituto Affari Internazionali. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo. Di recente ha pubblicato un libro sul ruolo dell’Europa nella crisi nucleare iraniana,“Europe and Iran’s Nuclear Crisis. Lead Groups and EU Foreign Policy-Making” (Palgrave Macmillan, 2018).

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