Il Libano al voto fra crisi e voglia di cambiamento

Domenica 15 maggio, i cittadini e le cittadine libanesi saranno chiamati a eleggere i nuovi membri dell’Assemblea Nazionale (majlis al-nuwwāb), il parlamento monocamerale della Repubblica libanese. Sono le prime elezioni dalla rivoluzione (thawra) dell’ottobre 2019, che vide intense proteste e movimenti sociali schierati contro una classe politica corrotta e il malgoverno.

Nei prossimi quattro anni, il parlamento dovrà  far fronte alle numerose crisi che dal 2019 affliggono il Paese. Alla crisi economico-finanziaria si sovrappongono un diffuso scontento politico, gli effetti della pandemia da Covid-19, l’incertezza successiva all’esplosione del porto di Beirut dell’agosto 2020 e, più di recente, l’impatto della guerra in Ucraina sulla sicurezza alimentare. L’Assemblea Nazionale dovrà anche eleggere il nuovo presidente della Repubblica, che per i prossimi sei anni prenderà il posto di Michel Aoun, il cui mandato terminerà il 31 ottobre.

Un sistema che tiene in scacco il Paese

Il sistema politico libanese è quello rappresentativo di una democrazia confessionale, in cui i membri del Parlamento sono eletti proporzionalmente sulla base dei gruppi etnici e religiosi che compongono il Paese e sui loro relativi peso demografico e distribuzione geografica. Ogni partito prende tanti seggi quanti sono i suoi voti all’interno del distretto elettorale (in totale sono 15), secondo un meccanismo proporzionale a preferenze multiple.

Le liste che corrono per le elezioni devono iscriversi nei diversi seggi e presentare uno o più candidati, i quali devono cercare di ottenere il consenso non solo dei propri correligionari ma della maggioranza degli elettori. Perché siano eletti, la lista deve superare una soglia di sbarramento del 10% e raggiungere un quoziente pari al numero dei voti totali del distretto diviso per i seggi disponibili.

Tale sistema proporzionale, stabilito nel 2017, supera il vecchio maggioritario, ma non è privo di problematiche. Innanzitutto, la competizione è limitata: in ogni distretto vi è una suddivisione prestabilita dei seggi su base confessionale, il che riduce l’effetto proporzionale del sistema, che diventa maggioritario nel caso di contenzioso di un unico seggio. Inoltre, l’elevata soglia di sbarramento sfavorisce le liste minoritarie o di nuova creazione che faticano contro le forze più consolidate. A penalizzare ulteriormente le liste più piccole e nuove (spesso laiche e inter-settarie appartenenti alla società civile) vi è poi la difficoltà di attecchire sulle fasce maggioritarie della popolazione legate a fazioni e gruppi tradizionali.

Contraddizioni istituzionali, divisioni sociali e settarie e interessi politici mantengono il Paese incastrato in un sistema confessionale che blocca il rinnovamento politico e non crea reali condizioni di governabilità. Per questo gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da compromessi fra gruppi parlamentari eterogenei e un delicato, quanto fragile, sistema di rapporti di forza.

La nuova tornata elettorale

I candidati iscritti alle elezioni sono 1043, dei quali 42 si sono preventivamente ritirati e altri 284 non si sono aggregati a una lista elettorale. In totale, 718 candidati, di cui 118 donne (16,5%), suddivisi in 103 liste elettorali concorreranno per i 128 seggi dell’Assemblea Nazionale. È un significativo incremento rispetto al 2018, quando si sfidarono 597 candidati (di cui 86 donne, il 14,4%) suddivisi in 77 liste. I numeri sembrano incoraggiare il cambiamento politico di cui necessita il Paese, ma potrebbero non essere sufficienti. Infatti, se le liste afferenti a forze politiche tradizionali (Forze Libanesi, Hezbollah, Amal ecc.) non presentano nuovi nomi degni di nota rispetto alle elezioni del 2018, quelle di recente creazione o di opposizione sono molto frammentate, con un rischio di dispersione dei voti che andrebbe a favorire le prime.

Il caso politico di Saad Hariri

La principale defezione nelle elezioni del 15 maggio sarà Saad Hariri, ex Primo ministro e leader del Movimento il Futuro (al-Mustaqbal), che a gennaio si è ritirato dalle elezioni e dalla scena politica. Altre figure sunnite di spicco, fra cui l’ex premier Fouad Siniora e l’attuale Primo ministro Najib Mikati, non parteciperanno alla corsa. Le liste dei principali partiti sciiti, Hezbollah e Amal, rimangono in pratica le stesse del 2018, con alcuni cambiamenti di minor rilievo in distretti come Zahle, Baalbek-Hermel, Bint Jbeil e Nabatiyeh. Fra i partiti cristiani, il Movimento Patriottico Libero, fondato dall’attuale presidente Michel Aoun, ha rinnovato alcune circoscrizioni escludendo molti ex parlamentari dalle liste ma non stravolgendo il proprio assetto, mentre le Forze Libanesi guidate da Samir Geagea vedono cambiamenti sostanziali solo nel nord e a Beirut. Le nuove liste di opposizione, con una preponderante componente di candidati giovani, si ritrovano invece suddivise in numerose coalizioni e movimenti (Chamalouna, Taqaddum ecc.).

Un sondaggio elettorale condotto a dicembre 2021 dalla Fondazione tedesca Konrad Adenauer mostra trend interessanti, anche se su un campione ridotto. Il 25,7% delle persone intervistate ha dichiarato di voler votare per una lista indipendente, contro il 5,3% del 2018. I vincitori delle scorse elezioni, i partiti sciiti Hezbollah e Amal, raccoglierebbero insieme il 17,7% dei voti (2018: 25,9%), mentre i gruppi rivoluzionari nati dopo le proteste dell’ottobre del 2019 verrebbero scelti dal 12,3%. Seguono le Forze Libanesi con 11,5% (2018: 7,3%) e il Movimento Patriottico Libero con il 6,8% (2018: 8,2%). È interessante sottolineare come circa la metà degli intervistati sia convinto che queste elezioni porteranno a un significativo cambiamento per il Paese, mentre il 44,8% afferma di non voler sostenere il partito votato nel 2018.

Aria di cambiamento?

La parola che più riecheggia in questa tornata è sicuramente “cambiamento” (taghīr). Dai partiti tradizionali alle coalizioni indipendenti e rivoluzionarie, tutti invocano una profonda ristrutturazione politica per il Paese. Ma allo stato attuale, cambiamenti drastici e sostanziali sono scenari poco plausibili. Al contrario, sembra profilarsi l’ennesimo compromesso fragile.

Pare debole anche l’influenza che i libanesi della diaspora potranno avere sulle elezioni. Oggi sono ufficialmente registrati 3.744.959 residenti e 225.114 non-residenti (libanesi della diaspora). Se i non-residenti aventi diritto di voto sono triplicati rispetto al 2018, essi rappresentano comunque meno del 6% del totale. Inoltre, le precedenti tornate hanno mostrato come tali voti siano tendenzialmente più conservativi e in linea con la propria affiliazione settaria rispetto a quella dei residenti.

Un altro fattore da considerare è quello dell’affluenza alle urne, che nel 2018 si è attestata attorno al 49,7%. La partecipazione è solitamente elevata per i partiti che hanno una solida base elettorale, fra tutti Hezbollah, mentre risulta più altalenante per gruppi e movimenti dalla scarsa esperienza politica, che difficilmente riescono ad attrarre grandi fasce di elettori storicamente affiliati ai partiti tradizionali.

I nuovi rappresentanti dell’Assemblea Nazionale dovranno scontrarsi con un Paese sempre più impoverito e in difficoltà, in cui una serie di riforme dovrà portare il Libano fuori dalle tante crisi che sta vivendo, rendendolo più credibile a livello internazionale e favorendo il supporto di altri Stati e istituzioni che potranno garantire un aiuto consolidato e duraturo per il suo futuro.

Articolo a cura della redazione MENA de Lo Spiegone.

Lo Spiegone è una testata giornalistica formata da studenti universitari e giovani professionisti provenienti da tutta Italia e sparsi per il mondo con l’obiettivo si spiegare le dinamiche che l’informazione di massa tralascia quando riporta le notizie legate alle relazioni internazionali, della politica e dell’economia.

Foto di copertinaEPA/WAEL HAMZEH

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