Il Donbass potrebbe replicare la storia in Sud-Ossezia e Abkhazia

Putin ha passato il Rubicone. Dire che l’occupazione militare del Donbass è una escalation non sarebbe esatto: tale termine indica una spirale di reciproche rappresaglie che non c’è stata, né da parte ucraina, né da parte americana. Di fronte alla cautela degli avversari nell’evitare di fornire pretesti ad una offensiva, il capo del Cremlino ha scelto di fare a meno di una giustificazione plausibile agli occhi del mondo, e di mettere in scena ad uso esclusivo della platea interna la grottesca finzione di un intervento difensivo. Diversamente dal 2008 (Sud-Ossezia e Abkhazia), il lupo non ha atteso che l’agnello facesse sventatamente la prima mossa.

Il riconoscimento di una situazione esistente

Con questo balzo in avanti ha evidentemente voluto tagliare la strada agli sforzi di Macron e Scholz per una soluzione diplomatica, temendo (forse non a torto) che Biden intendesse dirottare la crisi sul binario morto di lunghi negoziati sulla limitazione degli armamenti. Negoziati che avrebbero imposto restrizioni al dislocamento di truppe, missili e basi anche sul versante russo, cosa che Mosca non è certo propensa a prendere in considerazione.

Cade uno dei due presunti obiettivi della pressione militare delle scorse settimane: costringere Kiev ad attuare la sua parte degli accordi di Minsk, concedendo al Donbass un regime di autonomia speciale (l’altro era la rinuncia all’ingresso dell’Ucraina nella NATO, peraltro non all’ordine del giorno). Con il riconoscimento delle due “repubbliche popolari” si chiude definitivamente la prospettiva della riunificazione e dell’autonomia, esattamente come nel caso delle due regioni georgiane, e si archiviano i suddetti accordi del 2014-15.

E proprio come nel caso di Abkhazia e Sud-Ossezia, il riconoscimento significa non solo la formalizzazione di una situazione di fatto esistente da anni, ma la legittimazione della presenza di un contingente militare russo e il suo rafforzamento attraverso appositi accordi. Cosa che è avvenuta nel giro di poche ore.

Presagi di annessione

In conseguenza del riconoscimento e dell’aperta occupazione militare, eventuali tiri di artiglieria ucraini, sia pur giustificati da provocazioni dei ribelli, rischiano di colpire unità e installazioni dichiaratamente russe e offrire così un pretesto ad una offensiva contro le zone “libere” dell’Ucraina.

Come nel 2008, e a differenza del 2014 (Crimea), Mosca ha scelto la formula degli stati pseudo-indipendenti piuttosto che quella della annessione. Al riguardo, durante la riunione del consiglio di sicurezza russo che doveva approvare l’operazione Donbass si è assistito ad una scena quasi comica: uno dei capi dell’intelligence incline a dare ancora una chance al dialogo, richiamato all’ordine si è affrettato a dare il suo sostegno alla “annessione”; al che Putin ha bonariamente rettificato: qui parliamo di indipendenza; lo stesso lapsus è capitato ad un altro dei membri del Consiglio, trattati come scolaretti. Che avessero saltato una pagina del copione?

Non si può dunque escludere che l’annessione avvenga in un secondo tempo. Per il momento la fittizia indipendenza permette a Mosca di declinare ogni responsabilità per attacchi da parte delle milizie locali.

Quali sono i confini del Donbass?

La domanda che ora ci si pone è: fin dove è disposto a spingersi Putin, dato che le sanzioni minacciate dall’Occidente non sono un deterrente efficace? Una ipotesi razionale ma forse troppo ottimistica è che l’avanzata fino a Donetsk e Lugansk serva a mettere fine alla crisi senza avventurarsi in una guerra ma mostrando alla propria opinione pubblica un trofeo per il quale è valsa la pena schierare massicciamente truppe e navi. Se così fosse, e fermo restando che l’appoggio alla secessione delle due repubbliche viola il diritto internazionale, in particolare la garanzia di difendere l`’integrità territoriale dell’Ucraina data con il memorandum del 1994, questo atto illegale avrebbe il pregio di aprire la strada ad una almeno temporanea stabilizzazione della regione.

Questa interpretazione, plausibile ancora pochi giorni fa quando Putin e il suo apparato propagandistico definivano come “isteria” l’allarme degli anglo-americani circa una imminente invasione, vacilla ora alla luce del duro discorso nel quale il presidente russo ha negato la statualità dell’Ucraina, ha dipinto il suo governo come una pedina dell’America che minaccia la Russia, ha ribadito l’assurda accusa di genocidio e aggiunto quella, altrettanto priva di fondamento, di volersi dotare di armi nucleari.  La guerra non viene più esclusa, semplicemente si proclama che se ci sarà un bagno di sangue la responsabilità sarà di Kiev.

Il filo dal quale pende la pace è l’ambiguità sull’estensione territoriale del Donbass “indipendente”. La linea di demarcazione attuale, che passa molto vicino ai due capoluoghi, Donetsk e Luhansk, lascia in zona “libera” due terzi dei territori delle rispettive oblast (regioni). Dal momento che Putin ha confermato il riconoscimento alle due repubbliche nei confini definiti dalle loro costituzioni (corrispondenti alle vecchie oblast), dovremmo aspettarci una offensiva militare fino a quei confini. A cominciare da Mariupol, seconda città del Donbass e importante porto sul Mar d’Azov, che era già stata assediata e per breve tempo occupata nel 2014.

L’ultimatum di Putin

Il capo dei ribelli di Donetsk lo ha già annunciato, invitando le forze ucraine a ritirarsi senza combattere. Un rifiuto a un ultimatum del genere che venisse inviato da Mosca (non dissimile da quello austriaco alla Serbia del 1914, ma anche da quello americano del 1999, sempre alla Serbia, e quelli tedeschi del 1938 alla Cecoslovacchia e del 1939 alla Polonia) darebbe a Putin il pretesto per allargare le operazioni ad altre regioni. Lungo la fascia costiera da Mariupol alla Crimea? Fino alla Transnistria privando l’Ucraina dell’accesso al mare? Addirittura fino al corso del Dniepr? Gli americani, trasferendo il loro personale diplomatico a Lviv, e ora da Lviv in Polonia, mostrano di essere ancora più pessimisti.

Nella conferenza stampa di martedì 22 febbraio, Putin ha dettato le sue condizioni per una futura pacifica convivenza con Ucraina e occidentali, in altre parole per evitare il conflitto armato: rinuncia definitiva all’ingresso del paese nella NATO; accettazione del plebiscito col quale la Crimea ha aderito alla Federazione russa e del superamento degli accordi di Minsk sul Donbass; e – più importante – la smilitarizzazione dell’Ucraina. Questo terzo punto, ha precisato, implica la cessazione di tutte le forniture militari a Kiev. Gli stessi media russi definiscono questo proclama un “ultimatum”; e di nuovo si affacciano alla mente quei sinistri precedenti storici, in ciascun caso caratterizzati dall’inserimento di una condizione volutamente inaccettabile.

Foto di copertina EPA/YURI KOCHETKOV

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