Il disease mongering, la fabbrica delle malattie

Nel 1976 Henry Gadsden, presidente di un gruppo farmaceutico americano, dichiarò che la nuova frontiera del suo settore industriale sarebbe stata “produrre farmaci per persone sane, perché questo ci permetterà di vendere a chiunque, così come si vendono chewing gum”.

Che cos’è il disease mongering?

Ciò che potrebbe sembrare un ossimoro, in realtà è un’affermazione di grande importanza perché segna l’inizio di una delle pratiche più controverse e longeve dell’industria farmaceutica: il disease mongering. Tuttora diffusissima, la “fabbrica delle malattie” nasce dall’idea che, attraverso mirate campagne di marketing, sia possibile convincere chi soffre di complicazioni naturali e/o fisiologiche che (a) tali problemi non siano in realtà naturali e (b) l’unico rimedio sia l’utilizzo di un farmaco.

Di esempi ce ne sono tanti, basti pensare alla “patologizzazione” di fenomeni naturali e/o fisiologici come ansia, iperattività, menopausa o vecchiaia. Come è stato descritto da autorevoli fonti, “il disease mongering è una pratica insidiosa, spesso invisibile, che richiede seri provvedimenti in quanto comporta il rischio di scelte terapeutiche inopportune, malattie iatrogene e sprechi che minacciano la sostenibilità economica dei nostri sistemi sanitari e sottraggono risorse utili alla cura e prevenzione di patologie ben più gravi e reali. A un livello più profondo, il disease mongering contribuisce a modificare il modo in cui vengono percepite la salute e la malattia, promuovendo la medicalizzazione della vita e focalizzando l’attenzione esclusivamente su soluzioni farmacologiche (o tecnologiche in senso lato) che – dall’esterno – rimuovano i problemi”.

Creare un bisogno

Praticato con il benestare del regolatore (e “formando” allo scopo il settore medico), il disease mongering poggia su un concetto cardine del capitalismo di breve periodo: la “generazione di domanda”. Invece che intercettare esigenze reali, generare domanda comporta creare bisogni fittizi, che poco hanno a che fare con quelli del cliente e molto, invece, con i profitti delle aziende.

Il problema non è poi così serio nel caso delle Big Tech che, oltre a generare domanda e ad applicare un altro discutibile principio del capitalismo moderno (cioè l’obsolescenza programmata), sfornano ogni anno imperdibili versioni dei propri prodotti. Nel caso dei farmaci, invece, il problema è ovviamente più grave, soprattutto quando sono (a) prodotti per situazioni non patologiche; (b) immessi sul mercato nonostante l’evidenza di rischi; (c) rilasciati senza la necessaria disclosure dei relativi dati di test.

Settore protagonista di fondamentali avanzamenti per il benessere dell’umanità, quello farmaceutico è condizionato da significative distorsioni, ancora più importanti considerato il loro impatto sulla salute. L’intervento del policymaker è dunque fondamentale, a partire dalla soluzione del conflitto di interessi che influenza l’operato dell’ente regolatore sia negli Stati Uniti, dove i contributi dei soggetti regolati dall’FDA ammontano a circa il 50% del bilancio dell’agenzia, sia in Europa, dove tali contributi ammontano all’86% del bilancio di EMA.

L’intervento del legislatore è poi necessario per affrontare almeno altre due importanti pratiche che influenzano l’operatività del settore farmaceutico: l’evergreening (cioè l’estensione ad libitum della durata dei brevetti a protezione dei medicinali) o il pay-for-delay (meccanismo con cui le big pharma pagano aziende più piccole per posticipare l’entrata in commercio di farmaci generici, liberati da brevetti). Tali pratiche si riflettono sui prezzi al consumatore e, soprattutto, sui bilanci delle case farmaceutiche. Con effetti diametralmente opposti.

Serve una nuova consapevolezza

Ma puntare il dito e non assumersi la responsabilità delle nostre azioni sarebbe un grosso errore. Perché quanto a fabbricare (e ad autoinfliggersi) malattie, l’uomo non è secondo a nessuno. Come riporta l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono circa 41 milioni i decessi causati ogni anno da fumo, obesità e sedentarietà. Che poi, guarda caso, sono le cause alla base della comorbidità dei decessi Covid-19.

Una delle lezioni più forti che, dal punto di vista medico, si possono trarre dalla pandemia è che l’adozione di sane abitudini alimentari e motorie è la miglior forma di prevenzione. Stando ai dati ufficiali di molti paesi (ad esempio, il 94% in USA e il 97,1% in Italia), la quasi totalità dei decessi in presenza di SARS-Cov-2 è avvenuto in presenza di almeno una seria patologia. Considerato poi che le patologie alla base dei decessi sono in larga parte prevenibili, ne segue che il nostro stile di vita è il primo responsabile del nostro stato di salute. Come avrebbe detto Ippocrate: “fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo”. Così si esprimeva il padre della medicina scientifica, circa 2.500 anni fa. Quanto ce ne siamo allontanati, è sotto gli occhi di tutti.

Ed è per questo che dobbiamo alzare il nostro livello di consapevolezza. Dati ufficiali alla mano, la quasi totalità della popolazione mondiale (cioè il 94,4%) non ha contratto il SARS-CoV-2. Ma, nonostante il roseo futuro che la medicina di precisione e quella funzionale promettono, le terapie ‘one-size-fits-all’ continuano ad essere presentate come l’unica misura di policy praticabile, dimenticando le cause prime della debolezza del nostro sistema immunitario e aumentando a dismisura i profitti delle case farmaceutiche. Lo profetizzò Henry Gadsden neanche cinquanta anni fa. È realtà oggi.

Foto di copertina EPA/SALVATORE DI NOLFI

Ultime pubblicazioni