Le conseguenze ‘zero Covid’ sul patto sociale cinese

Sono ormai trascorsi tre anni da quando il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie della Cina notificava un focolaio di casi di polmonite di origine ignota nella città di Wuhan. Da epicentro della pandemia di Covid-19, l’emergenza sanitaria nella capitale dello Hebei si è presto trasformata in un banco di prova per la leadership cinese. Nel settembre 2020, in collegamento video con l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Xi Jinping affermava che “il Covid-19 è un importante test della capacità di governo dei Paesi”.

Da emergenza sanitaria a “guerra del popolo”

Il presidente Xi Jinping ha intravisto nell’emergenza un’occasione per consacrare il proprio ruolo di guida del partito e del Paese, presentandosi come il “comandante in capo” di una “guerra del popolo” contro il virus. Ha preso così avvio una politica di tolleranza zero contro il Covid-19 su scala nazionale, resa possibile da un sistema di rigidissime misure di tracciamento e controllo fino a giungere all’imposizione della quarantena in interi quartieri o città a fronte della comparsa di un numero esiguo di casi.

Il successo nel contenimento dei contagi è stato presentato dai media ufficiali come una prova della superiorità del sistema cinese, sotto la guida della forte leadership del Partito Comunista, nella gestione delle crisi, in contrasto con il “caos” pandemico e l’inefficienza che hanno travolto buona parte democrazie occidentali.

La strategia è diventata il cavallo di battaglia di Xi Jinping, grazie alla quale negli scorsi tre anni il leader ha mirato a capitalizzare consenso interno e prestigio sul piano internazionale. L’organizzazione dei Giochi olimpici di Pechino 2022, svolti (letteralmente) in una “bolla” anti-Covid, ha segnato l’apice della parabola ascendente della politica ‘zero Covid‘.

L’inizio di una crisi per il patto sociale cinese?

In realtà, qualcosa nell’imponente impalcatura di controllo ha iniziato a scricchiolare di lì a poco. Le rigide misure restrittive hanno avuto un impatto destabilizzante sulla vita quotidiana dei cittadini e il deterioramento delle prospettive economiche ha alimentato il timore che potesse venir meno uno dei pilastri di quel patto tacito che garantisce benessere economico in cambio di sostegno alla leadership del PCC. Il tasso di disoccupazione giovanile nelle grandi città è schizzato al 19,9% (attualmente un giovane su cinque non trova lavoro), gli investimenti immobiliari sono crollati per la prima volta dal 1999 (cioè da quando sono iniziate le rilevazioni) e la crescita del prodotto interno lordo ha registrato il più basso tasso di crescita dagli anni Settanta, fatta esclusione per il primo anno di pandemia.

Al netto del contenimento dei contagi, le autorità sono apparse sempre più lontane dal tenere fede alla promessa di crescita e stabilità.

Quando tra fine novembre e inizio dicembre un’ondata di proteste non isolate ha investito diverse città del Paese, è risultato chiaro che i costi politici della strategia di tolleranza zero promossa da Xi Jinping avrebbero potuto superare quelli economici.

Il malcontento contro le politiche del governo centrale

Un incendio divampato il 24 novembre in una palazzina nella città occidentale di Urumqi, che ha causato la morte di dieci tra le persone che erano costrette nelle proprie abitazioni a causa del lockdown, è stata la scintilla che ha infiammato la latente insofferenza alle misure contenitive e ha fatto esplodere manifestazioni di piazza, diffuse a macchia d’olio nelle principali città cinesi.

Denominata in quei giorni “rivoluzione dei fogli bianchi” per via dei fogli A4 usati dai manifestanti come simbolo della critica all’assenza della libertà di parola, l’ondata di proteste è stata espressione di un malcontento diffuso e trasversale alla società cinese che si è convogliato in una rara critica diretta ai vertici del potere, che non si era verificata dalle proteste di piazza Tiananmen del 1989.

Cambio di rotta: fine della politica ‘zero Covid’

Subito dopo le manifestazioni, a partire dai primi giorni di dicembre, le autorità hanno dato avvio al progressivo smantellamento del regime zero-Covid, sostenuto da una repentina inversione di rotta nella comunicazione ufficiale.

Zhong Nanshan, uno dei massimi esperti di Covid-19 e voce pubblica chiave nella pandemia, ha paragonato la variante Omicron all’influenza stagionale, sulla base dei loro simili tassi di mortalità. Le autorità hanno invitato la popolazione a cavarsela da sola. “Siate i primi responsabili della vostra salute“, è stato scritto sul Quotidiano del Popolo, lo stesso organo di informazione del Partito Comunista che nei precedenti tre anni aveva fatto da megafono agli appelli di mobilitazione collettiva lanciati dal leader Xi.

Simultaneamente, i funzionari di alcune città come Chongqing hanno esortato i casi lievi o asintomatici a recarsi normalmente sul luogo di lavoro, mentre l’applicazione di tracciamento utilizzata per il controllo dei contagi duranti gli scorsi tre anni è stata messa fuori uso.

Come sottolineano gli esperti, tracciare una linea netta tra l’esplosione del malcontento pubblico e l’abbandono della strategia ‘zero Covid’ sarebbe senza dubbio fuorviante. Sebbene sia probabile che le proteste abbiano esercitato una certa pressione sulle autorità nell’accelerare il passo sull’allentamento delle misure restrittive, il cambio di rotta era ormai previsto da tempo.

Il futuro incerto della riapertura

Le pesanti conseguenze economiche della strategia di tolleranza zero portata avanti da Xi continuano comunque a mettere a dura prova il Partito, che sulla performance economica e sul rispetto degli obiettivi di crescita e sviluppo fonda la propria legittimazione interna.

I dati ufficiali recentemente rilasciati parlano chiaro: nel 2022 il Pil cinese ha registrato un tasso di crescita del 3%, nettamente inferiore al target di “circa il 5,5%” precedentemente annunciato. Nel secondo semestre, mentre a Shanghai veniva imposto uno dei più drastici lockdown dell’intero periodo pandemico, la crescita è scesa fino allo 0,4%.

Tuttavia, nemmeno la fine della politica zero-Covid sembra essere garanzia di ripresa. Alla repentina impennata dei casi si somma un’immensa pressione sui servizi sanitari, anche a fronte dei non ancora sufficienti livelli di vaccinazione tra le fasce più anziane della popolazione, mentre le aziende sono spinte a fare i conti con la carenza di manodopera. Nonostante il sentimento degli investitori stranieri stia registrando segnali di ripresa, si teme ancora una certa volatilità del mercato e delle misure intraprese dalla leadership cinese. L’aumento delle infezioni potrebbe infatti dissuadere la normale ripresa delle attività e delle abitudini di consumo pre-Covid, colpendo gli stessi settori che dovrebbero beneficiare della riapertura.

Foto di copertina EPA/ALEX PLAVEVSKI

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