I dubbi di Roma sulla ‘Nuova Via della Seta’

“È possibile avere buone relazioni con Pechino, anche in ambiti importanti, senza che queste facciano necessariamente parte di un piano strategico complessivo”. Le parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni tradiscono i dubbi di Roma sulla decisione di rinnovare o meno la sua adesione alla Belt and Road Initiative (Bri) cinese. Appoggiare il piano di sviluppo infrastrutturale globale promosso dal presidente Xi Jinping per Meloni è stato “un grosso errore”. Allo scadere dei cinque anni di validità, il destino del memorandum d’intesa (Mou) siglato dal governo Conte nel marzo 2019 è incerto. Al di là dei proclami e del rinnovato spirito atlantista dell’esecutivo, i limitati benefici economici del patto mettono in evidenza il suo grande valore politico e simbolico.

Un fragile compromesso politico

Questa decisione potrebbe dare sostanza all’invito al “de-risking” ribadito dal Gruppo dei Sette all’incontro di Hiroshima, lo scorso maggio. Oggi, per Meloni, “mancano le condizioni politiche per confermare l’accordo”. Ma se la posizione del governo è tornata a pendere a favore delle tradizionali alleanze, il pragmatismo politico richiede prudenza. Oltre alle velleità anti-sistema dei partiti della coalizione, secondo la ricercatrice del Merics Francesca Ghiretti, euroscetticismo e interessi che orbitavano intorno alla Cina sono gli elementi che hanno sostenuto la decisione di firmare l’accordo durante il primo governo Conte.

Con il governo Draghi, insediatosi nel 2021, l’Italia è tornata nell’alveo delle tradizionali alleanze, mostrando sempre meno calore nei confronti di Pechino. Poi è arrivata Giorgia Meloni. Pur con il suo background conservatore, euroscettico e controverso sulle scelte passate di politica internazionale (supporto al Gruppo di Visegrád e alla Russia di Putin, tra le altre), dall’inizio del suo mandato ha optato per un equilibrio di compromesso tra le varie anime della maggioranza. La Bri è una questione da “maneggiare” con cura, secondo la leader di Fratelli d’Italia. “È una decisione che non abbiamo ancora preso”, ha dichiarato a inizio maggio, “un dibattito aperto sul quale credo che gli attori da coinvolgere debbano essere molti e a vari livelli, Parlamento compreso”.

Per quanto le alleanze internazionali di questi tempi siano al centro del dibattito pubblico, quella sulla Bri non è una scelta scontata. L’Italia è l’unico Paese del G7 ad aver accettato di partecipare al progetto della “Nuova via della seta” cinese. Come ha sottolineato Xixi Hong, autrice di un un articolo apparso sull’International Spectator, il MoU siglato dal governo di coalizione composto da Movimento 5 Stelle e Lega, pur non essendo giuridicamente vincolante, ha rappresentato una presa di posizione forte da un punto di vista simbolico. Economicamente, infatti, gli accordi commerciali che avrebbero dovuto catalizzare gli investimenti infrastrutturali cinesi in progetti concreti sono stati rari e spesso pubblicamente inaccessibili. “Le ventilate maggiori opportunità commerciali – tra le ragioni più citate dei benefit dell’intesa – non si sono ancora concretizzate”, ha commentato Alessia Amighini, docente di Politica economica all’Università del Piemonte orientale, in un articolo apparso su La Voce. Secondo la professoressa, i dati dell’Italia Trade Agency dimostrano come l’interscambio tra i due Paesi sia cresciuto da 55 miliardi di dollari circa nel 2020 a quasi 78 miliardi nel 2022, ma con la bilancia dei pagamenti a favore di Pechino. Mentre la quota di mercato dell’Italia in Cina è rimasta costante: intorno all’1,1% dal 2020, è scesa allo 0,99% nel 2022.

Cina sì o Cina no?

Il MoU avrebbe dovuto rappresentare la cornice giuridica di vari accordi commerciali, da stipulare per sostanziare l’intesa. Nel 2019 ne erano previsti 29, dieci aziendali e 19 istituzionali, per un valore complessivo di circa 7 miliardi di euro. Il progetto non è mai decollato del tutto, anche perché da allora sono cambiati tre governi, e l’intesa non ha potuto contare sulla continuità delle simpatie politiche del governo giallo-verde. Pechino, però, è solita servirsi della geopolitica dei trasporti e delle infrastrutture per ottenere guadagni economici e prestigio internazionale.

Gli snodi intermodali dei porti europei avrebbero dovuto rappresentare strategiche porte d’accesso per il progetto di sviluppo globale di Xi nel mondo. Per questo, con buona pace degli Stati Uniti, della Nato, dell’Unione europea, il colosso cinese Cosco si è accaparrato il 40% del porto di Vado Ligure, e poi tramite Hhla Pechino è sbarcata anche a Trieste. Ma l’allarmismo, fino ad oggi, è stato ingiustificato. Secondo Ghiretti (Merics) l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale e l’omologa triestina hanno agito con prudenza, circoscrivendo gli investimenti cinesi in ambiti specifici, senza dare loro eccessivo margine.

È proprio lo scarso impatto economico, in realtà, a lasciare al governo ampio margine di riflessione politica sull’accordo. “Fermare una collaborazione vaga farebbe più rimore che lasciarla rinnovare automaticamente”, ha detto la ricercatrice dello Iai Beatrice Gallelli al Financial Times. L’ambasciatore Stefano Stefanini, rappresentante permanente dell’Italia alla Nato, ha affermato che l’Italia “non può avere Cina e Stati Uniti allo stesso tempo, per quanto sia difficile”. In un clima internazionale sempre più teso e polarizzato per via della guerra russo-ucraina, “la politica sceglie”. Visto il deteriorarsi delle relazioni sino-statunitensi “non si può rimanere alleati degli Usa e allo stesso tempo rimanere nella Bri”, ha affermato, “bisogna cercare di negoziare con i cinesi un’uscita pacifica – o, almeno, meno dannosa possibile”. Tuttavia, hanno sottolineato Amy Kazmin e Yuan Yang sul Financial Times, il fatto che Meloni si sia mostrata ferma sul sostegno all’Ucraina ha diminuito la pressione degli Usa sull’Italia, mentre la comunità imprenditoriale guardava al mercato cinese per mitigare le esternalità negative delle sanzioni sulla Russia sul loro successo commerciale.

Anche se c’è tempo almeno fino alla fine dell’anno, considerazioni politiche e strategiche alimentano le speculazioni sull’affatto scontata decisione del governo Meloni sulla Bri. Al G7 di Hiroshima i presenti auspicavano forme più blande di delegittimazione politica che scongiurassero un vero decoupling da Pechino. Ma le istanze di “derisking” e “diversifying” sembravano, a detta dell’agenzia di stampa statale cinese Xinhua, mere inezie retoriche per giustificare l’innalzamento di “cortili piccoli con recinzioni alte”. Anche se l’invito del Gruppo mancava di indicare una prassi da seguire, la decisione di Meloni potrebbe fare da esempio. Quale che sia la scelta, ancora non è dato sapere, quello che conta sono le argomentazioni cui ricorrerà il governo per giustificarla. Pechino richiede spesso una fedeltà senza zone d’ombra, ma economicamente si dice disposta a relazionarsi con tutti gli attori della comunità internazionale. Se, però, i benefici commerciali sono limitati, quello che resta del MoU è un dilemma manicheo: Cina sì o Cina no?

Foto di copertina ANSA/Filippo Attili – Uff stampa Palazzo Chigi

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