Povertà e terrorismo: la crisi annunciata dell’Afghanistan

Il caotico ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan alla fine di agosto 2021 ha portato alla fine della più lunga “guerra generazionale” della storia moderna e all’occupazione di una delle nazioni più povere dell’Asia che deve ora affrontare crescenti restrizioni e una gravissima crisi economica e alimentare.

L’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan si è concluso, dopo venti anni, con le drammatiche immagini dell’aeroporto “Hamid Karzai” di Kabul: da un lato, le centinaia di migliaia di cittadini afghani in fuga dalla repressione fondamentalista dei talebani e alla ricerca di un futuro migliore all’estero e, dall’altro lato, la cornice di sicurezza dell’aeroporto che era costituita da soldati statunitensi al fianco dei talebani della famigerata unità Badri 313, unità scelta di attentatori suicidi, costituita e guidata da Sirajuddin Haqqani, il leader militare legato ad al-Qa’ida e che oggi riveste il ruolo di ministro degli Interni del ricostituito Emirato islamico. Quest’ultima immagine, più di tante altre, sintetizza l’esito disastroso di una guerra avviata con grande partecipazione, presto dimenticata con imbarazzo e, infine, persa nel peggiore dei modi possibili.

I talebani: da minaccia a minacciati

Oggi, a quattro mesi dalla presa del potere da parte dei talebani possiamo dire che le cose stanno andando di male in peggio. Un primo sguardo alla condizione di sicurezza complessiva ci porta a considerare il Paese come generalmente più sicuro di quanto non lo fosse prima del ritorno al potere dei talebani e questo perché non c’è più una guerra combattuta su due fronti: le forze militari straniere se ne sono andate e l’esercito afghano si è dissolto insieme al resto dello Stato. E questo è un fatto.

Ma una più attenta analisi ci suggerisce uno scenario diverso, in cui è la natura dell’insicurezza a essere mutata: ora sono i talebani, non più forza insurrezionale, a essere obiettivo degli attacchi, da una parte del gruppo terrorista Stato islamico Khorasan (IS-K) e, dall’altra, da parte di quelle forme di resistenza che piccole ma non irrilevanti rappresentano una spina nel fianco per l’Emirato talebano. Percentualmente possiamo dire che dei circa cento attacchi/eventi terroristici e di opposizione armata registrati da START InSight da settembre a dicembre dell’anno appena concluso, l’85 percento sono attribuibili all’IS-K – che è in grado di operare sia in Afghanistan, sia in Pakistan.

Tra le forme di resistenza, la più rappresentativa è certamente quella tagica, sebbene sia comunque un fenomeno marginale, limitato alle valli periferiche del Panjshir. A questa si sommano le varie resistenze locali, fisiologiche per una realtà eterogenea come quella afghana, che non sono opposizione aperta ai talebani in quanto tali, bensì a un sistema centrale di controllo: esistevano prima nei confronti del governo centrale, sopravvivono oggi con la sua fine.

Violenza e controllo dell’ordine pubblico

Un altro problema di rilievo, questo sì di grande preoccupazione da parte del governo talebano, è quello relativo all’ordine pubblico e al “rispetto della legge”: l’economia del paese è al collasso e la maggior parte della attività commerciali sono bloccate. Ciò ha portato a una diffusa situazione di ingestibilità e incapacità di controllo da parte dei talebani che non sono in grado di garantire la sicurezza agli stessi operatori del commercio: dagli imprenditori agli autotrasportatori che, come extrema ratio e a conferma di un sistema statale inesistente, sono stati autorizzati ad armarsi per auto-proteggersi. Un’eccezione di rilievo considerando il divieto di porto d’armi esteso a tutto il paese all’indomani dell’instaurazione dell’Emirato.

Un’ulteriore criticità a cui i talebani non sono riusciti a porre rimedio, e che di fatto li vede anche corresponsabili, è la diffusa violenza nei confronti delle minoranze, in particolare quella hazara che, da un lato è marginalizzata e oggetto di violenze da parte degli stessi talebani (nonostante la recente nomina dell’hazara Abdul Latif Nazari a vice ministro dell’Economia – scelta opportunistica dettata dalla ricerca del sostegno internazionale ) e, dall’altra, è obiettivo delle violenze sistematiche perpetrate dall’IS-K, impegnato nell’alimentare un conflitto settario – sunniti vs sciiti – di fatto mai presente  prima in Afghanistan.

Sanzioni e collasso economico

Infine, l’aspetto più importante, da cui tutto discende: la sicurezza economica. Il paese, già al limite della sostenibilità durante gli ultimi mesi di vita della Repubblica islamica dell’Afghanistan, in ultimo guidata dalla discussa e mai ampiamente apprezzata figura di Ashraf Ghani, si trova oggi ad affrontare una situazione di collasso sostanziale. Senza un’economia la sicurezza generale, già estremamente precaria, sarà sempre più difficile da garantire.

Il 2022 rappresenta l’anno delle grandi sfide afghane. E ancora una volta il ruolo della Comunità internazionale sarà determinante: condannare il governo talebano a una politica di sanzioni e chiusura totale non potrà che avere effetti negativi per la già duramente provata popolazione afghana e alimenterà sempre più l’emergere e il radicarsi di gruppi jihadisti che compongono la galassia del terrorismo internazionale. Al contrario, l’avvio di un programma di sostegno e di servizi minimi essenziali – auspicabilmente gestiti dalla Nazioni unite – potrebbe contenere un disastro umanitario le cui premesse sono sotto gli occhi di tutti.

Questo non significa, né comporterebbe, un riconoscimento formale ai talebani – che comunque arriverà con il tempo, confermando la primazia della real politik sull’idealismo – ma garantirebbe alla popolazione civile di non dover pagare per colpe che non ha e darebbe alla stessa Comunità internazionale la possibilità di un impegno coerente con quelle che sono state le ragioni a sostegno del ventennale impegno in Afghanistan.

Foto di copertina EPA/STRINGER

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