Afghanistan un anno dopo: l’ombra di al-Qaeda su Kabul

Il disimpegno statunitense e della Nato, lo scioglimento delle forze armate afghane, l’avanzata talebana e la fine dell’esperienza della Repubblica islamica dell’Afghanistan sostenuta dalla comunità internazionale sono costati ai soli Stati Uniti mille miliardi di dollari a cui si sommano i 3.500 soldati della coalizione caduti tentando di sconfiggere l’insurrezione capeggiata dai talebani.

Era il 15 agosto 2021 quando gli eredi del mullah Mohammad Omar entrarono indisturbati a Kabul, dopo aver provocato, con un magistrale “effetto domino”, il collasso di tutte le forme di governo delle aree periferiche, fino ad arrivare alla capitale, abbandonata dal suo presidente e dai ministri, consegnando il Paese agli stessi talebani di vent’anni prima – Hibatullah Akundzada, Abdul Ghani Baradar, Hassan Hakund – o ai loro eredi, in particolare il mallawì Mohammad Yaqoub, figlio del fondatore dei talebani, e Sirajuddin Haqqani, ricercato numero uno dall’FBI, legato ad al-Qa’ida e oggi potente ministro degli Interni dell’Emirato islamico.

Afghanistan un anno dopo

A un anno di distanza è lecito chiedersi a cosa abbia portato un impegno militare durato vent’anni che si è concluso con un fallimento tanto plateale quanto ampiamente previsto da una parte degli analisti impegnati negli anni a tener vivo e ad alimentare il dibattito sulla “guerra più lunga”.

A un anno esatto dalla presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan è un paese fallito, in preda a una crisi alimentare ed agricola senza precedenti e con un governo incapace di rispondere alle più elementari necessità del suo popolo, dalla salute alla sicurezza, e che, nonostante la crisi economica e sociale, impone un’economia di guerra e una sempre più severa restrizione dei diritti individuali, a partire dalle donne, sempre più a margine della vita sociale quanto delle cronache internazionali.

L’Afghanistan è oggi un paese sostanzialmente più sicuro di quanto non lo fosse un anno fa. Una sicurezza che si traduce meramente in numeri di vittime civili e caduti militari che si sono ridotti a una minima frazione di quelli registrati durante la guerra dei vent’anni. Ma non per questo l’Afghanistan è divenuto un posto migliore in cui vivere.

Le premesse non aprono ad alcuna prospettiva di miglioramento nel breve periodo; al contrario, aumenta la presenza, l’attivismo, la capacità organizzativa e operativa dei gruppi jihadisti che in questo paese hanno ritrovato una base sicura per colpire all’interno dei confini afghani (dove si impone la competizione tra i talebani al governo e il gruppo terrorista “Stato islamico Khorasan”), nei paesi della regione (i talebani pakistani, il movimento islamico dell’Uzbekistan, i jihadisti uiguri che guardano alla Cina come obiettivo da colpire) ma anche più lontano, in Occidente, in Africa e nel Sud-Est asiatico. Una situazione dinamica che ci consegna un paese più pericoloso e fertile per il jihadismo internazionale di quanto non lo fosse prima dell’intervento statunitense contro al-Qa’ida, responsabile degli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 e ospitata dai talebani afghani.

Il legame con al-Zawahiri

Ed è a quel momento che si ricollega un fatto che ridefinisce il ruolo dell’Afghanistan oggi: l’uccisione, lo scorso 31 luglio, del leader di al-Qa’ida Ayman al-Zawahiri, successore di Osama Bin Laden e leader del gruppo dal 2011. Non tanto per il fatto in sé, quanto per ciò che è in grado di confermarci in merito allo stretto legame tra l’attuale governo talebano e un terrorismo che si è imposto in maniera strutturale come strumento di Stato in cui la presenza di gruppi radicali potrebbe trasformare il Paese in un trampolino del jihadismo globale.

La presenza a Kabul, non solo indisturbata ma addirittura come ospite formale del ministro degli interni Sirajuddin Haqqani di Al-Zawahiri, definisce uno scenario in cui si impone il ruolo dello stesso Sirajuddin, legato ad al-Qa’ida per vincoli matrimoniali. Oggi al-Qa’ida in Afghanistan ha un ruolo chiave perché potrebbe trasformare la vocazione “nazionale” dei talebani spingendoli nell’arena di uno jihadismo globale sempre molto attivo e la cui area d’azione si starebbe trasferendo dal sub-continente indiano e dal Medioriente al continente africano. Gli stessi talebani che al-Zawahiri definì come “i portatori dell’interpretazione corretta di quella sharia che dovrebbe essere applicata a livello globale”, additando il loro gruppo come modello di riferimento per tutti quei gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali che dall’Africa subsahariana fino al Sudest asiatico, si stanno diffondendo e addirittura consolidando.

Resistenza afghana e jihad nel governo talebano

La solidità di questo trampolino del jihad globale accresce col tempo a mano a mano che aumenta la conflittualità all’interno della stessa compagine talebana perché il rischio è che le correnti all’interno del movimento possano trasformare questa competizione per il potere in un confronto armato. E all’interno di questo possibile confronto si inserirebbero “tre variabili”: lo Stato islamico Khorasan, la galassia di gruppi più o meno piccoli di jihadisti che in Afghanistan si stanno consolidando e la cosiddetta resistenza afghana – quella identificata con il Panjshir che è diventata il ‘Fronte nazionale di resistenza’ guidata da Ahmad Massoud, il figlio del ‘Leone del Panjshir’ – che si inserisce in un contesto conflittuale amplificandolo, pur non avendo la capacità di sconfiggere i talebani.

Quello della resistenza afghana è un elemento importante, non numericamente, ma da un punto vista politico in un Paese in cui si è imposto l’elemento di “esclusività” del governo talebano in contrapposizione all’auspicata “inclusività”. Di fatto si è assistito a una presa e consolidamento del potere da parte della forte componente della Shura di Quetta, la storica leadership talebana che si è di fatto trasformata in forza di governo esclusiva dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Un aspetto che, se da un lato non disturba l’amministrazione del presidente Joe Biden, dall’altro lato pone in evidenza tutti i limiti annunciati di un’assenza di volontà da parte talebana di tagliare i legami e contrastare la presenza e l’attivismo di al-Qa’ida in Afghanistan.

Tanto da porci di fronte al “paradosso” di vedere la stessa al-Qa’ida in parte rappresentata all’interno del governo talebano e con un ruolo di consulenza e confronto, in particolar modo con l’ala più oltranzista legata alla rete Haqqani, alla figura di Sirajuddin Haqqani, che si contrappone, un po’ anche in competizione interna, all’altra ala più ‘pragmatica’ del mallawì Yaqoob. Sirajuddin e Yaqoob, rappresentanti di gruppi in competizione tra di loro, sono di fatto i due uomini di fiducia del mallawì Haibatullah Akhundzada, leader supremo dei talebani, e dispongono entrambi di propri eserciti di attentatori suicidi votati al martirio.

Foto di copertina EPA/STRINGER

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