I diritti negati di donne e bambine in Afghanistan

Il 21 marzo l’autoproclamato Emirato islamico dell’Afghanistan guidato dai talebani aveva annunciato la riapertura di tutte le scuole nel Paese. Due giorni dopo, mentre molte di queste si stavano preparando per il primo giorno del nuovo anno scolastico, i talebani hanno invece annunciato che le scuole secondarie femminili sarebbero rimaste chiuse – a tempo indeterminato – fino a quando non saranno definite le necessarie regole di conformità ai “principi della legge islamica e della cultura afgana”, comprese ulteriori restrizioni sull’abbigliamento delle studentesse.

Un “non-stato” in mano ai fondamentalisti

Una scelta, quella dei talebani, che si dimostra essere tanto crudele quanto cinicamente razionale: è un segnale perentorio, una minaccia in forma di subdolo ricatto, rivolto ai Paesi partecipanti alla conferenza internazionale dei donatori del 31 marzo, il cui obiettivo è la raccolta di 4,4 miliardi di dollari per sostenere lo sforzo a contenere la disperata crisi umanitaria che attanaglia il paese.

Le vicende riportate dai media internazionali in questi ultimi giorni – ovviamente in secondo piano rispetto ad altri conflitti mediaticamente più appaganti –  non fanno che confermare le valutazioni e le analisi che abbiamo fatto e ripetuto nel corso degli anni qui su AffarInternazionali e in altre sedi. I talebani si stanno dimostrando per quello che sono: un movimento fondamentalista, ancorato a una concezione del mondo anacronistica che, nonostante alcune aperture al mondo moderno – in particolare per quanto riguarda l’uso delle tecnologie comunicative e dei social network – sono incapaci di governare un paese e il suo popolo. I talebani “di governo” non sono in grado di garantire i servizi minimi essenziali alla popolazione afghana e, al contempo, hanno un’esplicita volontà di negare l’accesso ad alcuni di questi servizi a una parte della popolazione.

La condizione di donne e bambine in Afghanistan

Alle donne è negato il diritto all’istruzione e all’indipendenza, agli uomini è imposto l’obbligo della barba e il controllo sulle loro donne; molte attività commerciali sono bandite in nome di una non precisata visione della shari’a, la legge coranica che, nell’accezione talebana, trae ispirazione alla scuola riformista Deoband. Segregazione, misoginia, discriminazione religiosa (contro gli sciiti), razzismo (in primis nei confronti della minoranza hazara), rappresaglia (nei confronti degli ex militari delle forze armate afghane e dei collaboratori degli occidentali) sono solo alcuni degli aspetti che stanno contribuendo a fare dell’Afghanistan un “non-stato”, prima ancora che uno stato fallito.

Una prigione, sempre più povera e devastata dagli effetti di oltre quarant’anni di guerre, dalla quale non è più possibile uscire: è infatti stato imposto il divieto di lasciare il Paese senza un regolare passaporto valido per l’espatrio a cui si associa lo stop al servizio di rilascio passaporti che, come noto, è gestito dal ministero degli interni guidato da Sirajuddin Haqqani – a capo dell’omonima organizzazione terroristica e strettamente legato ad al-Qa’ida. E fermo è, di fatto, l’accesso ai cosiddetti “corridoi umanitari” ai quali sono ammessi solo coloro che già hanno lasciato l’Afghanistan, e che oggi sono in balia degli eventi per lo più in Pakistan e Iran.

Da Doha al ritiro: il fallimento dell’impegno occidentale

Lo scenario non ci sorprende, e non ci sono ragioni perché dovrebbe farlo: i talebani, da un lato, non hanno mai cessato di perseguire l’istituzione di uno stato minimo ed etico e, dall’altro lato, hanno sempre sfidato la Comunità internazionale, imponendo le proprie ambizioni e volontà a una platea sempre più stanca di gestire, senza successo, l’instabilità afghana. Lo abbiamo visto con gli accordi di Doha, avviati nel 2012 dall’allora presidente Barack Obama, conclusi da Donald Trump nel 2020 e realizzati da Joe Biden nel 2021: in ogni fase del dialogo negoziale i talebani hanno imposto i loro tempi, le loro priorità e obiettivi. Gli Stati Uniti, che di quel tavolo negoziale sono stati i primi sostenitori e, in ultima battuta, gli unici interlocutori – con buona pace del governo afghano formalmente escluso dal dialogo con i talebani – hanno accettato tutto senza chiedere nulla in cambio (se non la salvaguardia del personale statunitense nel Paese).

Oggi siamo qui a prendere atto del fallimento sostanziale di un impegno ventennale, sia politico che militare, e per questo non possiamo imporre ai talebani la nostra volontà, essendo loro i veri vincitori. Possiamo però contribuire a rendere meno dura la realtà di quei cittadini afghani, pochi ormai a dire il vero, che ancora lottano perché gli sforzi fatti in due decenni non siano del tutto vani. In prima fila ci sono le donne a protestare, a rischio della propria vita, ma sono sempre meno ogni giorno che passa.

Foto di copertina EPA/STRINGER

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