Il 21 agosto 2025 la Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite, Hanaa Tetteh, ha presentato al Consiglio di Sicurezza una nuova roadmap per provare a sbloccare l’infinita transizione libica. Il piano arriva in un paese logorato da anni di governi provvisori, istituzioni screditate e un’opinione pubblica sempre più sfiduciata. La roadmap, che si dovrebbe concretizzare in un orizzonte temporale di 12–18 mesi, poggia su tre pilastri: un quadro elettorale credibile, la formazione di un governo unificato e un dialogo inclusivo che coinvolga non solo le élite ma anche giovani, donne e società civile.
I rischi, tuttavia, sono evidenti. Elezioni senza un’intesa politica e di sicurezza condivisa potrebbero alimentare instabilità. Il recente voto locale, pur con un’affluenza del 71%, ha interessato solo 26 comuni su 63: l’entusiasmo resta parziale e la capacità di sabotaggio di attori contrari al processo rimane alta. Nel frattempo, la Libia continua a essere divisa tra due governi: quello di unità nazionale (GNU) a Tripoli e l’autorità orientale legata alla Camera dei Rappresentanti, dipendente dalle forze armate di Khalifa Haftar. Non a caso, Tetteh ha avvertito che i tentativi di boicottaggio saranno inevitabili e che solo una forte unità tra gli attori esterni potrà garantire la tenuta del piano.
In questo contesto, pochi giorni prima, a Bengasi, Haftar aveva promosso il figlio Saddam a Vice Comandante Generale dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) e nominato altri familiari in posizioni di rilievo. Una mossa “dinastica”, con tempismo non casuale: alla vigilia dell’iniziativa ONU e in parallelo e durante il riavvicinamento tra Haftar e la Turchia. L’ascesa di Saddam consolida una catena di comando familiare, utile a rassicurare l’entourage del generale sul tema della successione e a proiettare verso l’esterno un’immagine di continuità. Non a caso, negli ultimi mesi, il giovane Haftar è stato impegnato in un’intensa agenda internazionale, che ha incluso contatti con americani, italiani, egiziani, ma soprattutto turchi.
L’evoluzione del rapporto tra Haftar e la Turchia è il vero elemento di novità degli ultimi mesi. Ankara, infatti, ha progressivamente ampliato la propria strategia. Dal 2023, ha iniziato ad aprirsi anche ad Haftar e, da partner esclusivo di Tripoli, si è trasformata in interlocutore di entrambi, come simboleggiato dalla visita a Bengasi, senza passare per Tripoli, del capo dell’intelligence İbrahim Kalın, fedelissimo di Erdoğan. Dopo aver tentato di conquistare Tripoli, fallendo a causa dell’intervento di Ankara, Haftar sembra riconoscere che la guerra non può essere vinta militarmente e che la Turchia è ormai un attore determinante. La scelta è quindi pragmatica: meglio integrare Ankara piuttosto che continuare a opporvisi. Per Tripoli, invece, il quadro si fa ora più complicato. Il premier Abdelhamid Dbeibah governa grazie alla protezione turca e al sostegno di milizie locali e di Misurata trasformatesi in apparati dello stato, ma non le controlla davvero. Ma con la Turchia che apre canali di dialogo ad est, il margine di manovra di Dbeibah si restringe ulteriormente.
Oggi la Turchia è indispensabile su tutti i dossier libici: gestisce la mediazione delle tensioni a Tripoli, ha il ruolo di broker politico complessivo e usa la Libia per proteggere i propri interessi nel Mediterraneo Oriente, cercando di preservare la garanzia che il memorandum marittimo del 2019 resti valido, possibilmente con ratifica parlamentare a Est. Questo è l’interesse principale che ha spinto i turchi a parlare con Haftar.
Quest’ultimo nodo resta particolarmente sensibile. La Grecia continua a considerare il memorandum Turchia–Libia sulla delimitazione delle ZEE contrario al diritto internazionale. A inizio settembre, Atene ha presentato una lettera formale di protesta all’ONU contro le rivendicazioni libiche. Per la Grecia, lo scenario peggiore è che l’intesa tra Ankara e Haftar si consolidi, estendendo il memorandum a livello nazionale e blindandolo con l’approvazione del parlamento. In quel caso, l’accordo diverrebbe parte integrante dell’architettura giuridica libica, rendendo molto più difficile ogni contestazione futura da parte di Atene e dell’UE.
In questo contesto, l’Italia sta cercando di ritagliarsi un ruolo di facilitatore. Alcuni incontri a Roma tra figure vicine a Dbeibah e alla famiglia Haftar, sotto gli auspici degli americani, vista la presenza dell’inviato speciale di Trump, Massad Boulos, indicano che Roma riesce ancora a mediare tra rivali in Libia. Tuttavia, la realtà è che il baricentro della partita libica si è spostato strutturalmente altrove: l’intervento turco del 2019 ha reso Ankara il principale arbitro, relegando l’Italia a un ruolo di supporto.
La Libia si trova dunque davanti all’ennesimo bivio. La riuscita della roadmap ONU dipende dalla capacità di attori interni ed esterni di superare logiche a somma zero. Diplomaticamente, la Turchia è ormai l’attore sistemico centrale. In questo contesto Haftar, tramite la dinastizzazione del suo potere, ha messo in chiaro cosa vuole per il futuro: che la sua famiglia resti perno centrale di qualsiasi architettura del potere libico. E qui, il paradosso ultimo diventa eloquente: il generale la cui avanzata su Tripoli fu fermata dall’intervento militare turco potrebbe presto entrare nella capitale grazie a un nuovo governo unitario promosso dall’ONU e sotto la supervisione diplomatica turca. Senza sparare un colpo.
Dario Cristiani è IAI/GMF Senior Fellow presso il German Marshall Fund, dove lavora principalmente su politica estera italiana, Mediterraneo e politica globale in stretta collaborazione con lo IAI.