Ha vinto Donald Trump o Ursula von der Leyen? È l’interrogativo di gran parte della stampa europea all’indomani della bozza di accordo (ancor oggi non vincolante) fra Usa e Ue sulla questione dei dazi.
Forse non è la domanda più appropriata. Bisogna infatti partire dal fatto che la guerra dei dazi l’ha lanciata Trump, non l’Europa. Ci siamo quindi fin da subito trovati nella condizione di doverci difendere da un attacco, per di più da quello che in teoria doveva essere un nostro alleato. È poi abbastanza ironico che l’incontro si sia svolto in Scozia, parte di quel Regno Unito che ha abbandonato l’Ue alcuni anni fa. Umiliante, come minimo, anche in considerazione del fatto che l’Inghilterra ha strappato fin da subito una concessione più vantaggiosa della nostra: il 10% di dazi contro il 15% dell’Ue.
Per di più, è apparso assai penoso assistere a una pre-conferenza stampa, cosa mai avvenuta in altri contesti, ancora prima di discutere le linee generali dell’accordo. Alle domande dei cronisti, von der Leyen è intervenuta una sola volta, mentre Trump furoreggiava con gli argomenti più disparati, dall’odio per le pale eoliche ai suoi sforzi per bloccare il conflitto tra Thailandia e Cambogia. Il tutto per dimostrare che il padrone di casa era lui. E, in effetti, l’incontro si è tenuto nel lussuoso resort del golf di sua proprietà in Scozia. Una località per nulla istituzionale, a sottolineare il dispregio del tycoon per le normali regole diplomatiche. Si aggiunga che nella conferenza stampa, che ha invece seguito la discussione fra le due delegazioni, von der Leyen ha lodato Trump riconoscendo che l’Ue aveva sfruttato per anni l’economia americana e che finalmente si era raggiunto un equo bilanciamento fra Bruxelles e Washington. Un inchino al boss americano che poteva tranquillamente risparmiarsi. Con un Trump chiaramente soddisfatto, nel suo narcisismo, per i risultati vantaggiosi ottenuti nel breve periodo dalla sua guerra non contro i nemici (anzi, con loro è molto più prudente e rispettoso), ma contro gli alleati degli ultimi 80 anni. Un giornale europeo ha definito l’atteggiamento di Trump come “mafia style shakedown”, un’estorsione mafiosa.
A rimetterci alla fine è stata Ursula von der Leyen, arrivata con le mani legate al tavolo della trattativa finale con Trump. Malgrado il mandato ottenuto con grande difficoltà dai 27, la posizione europea non poteva essere altro che difensiva. Minacciare dazi di ritorsione da parte nostra o utilizzare il famoso bazooka, cioè gli strumenti per colpire le grandi aziende tech americane essenziali per far funzionare l’insieme informatico dell’Ue, sarebbe stato probabilmente controproducente, portandoci in un territorio in cui la supremazia americana (e la nostra dipendenza) non lascia spazi di mediazione.
Va anche precisato che von der Leyen ha dovuto barcamenarsi fra due posizioni contrastanti tra i 27. La Francia, da una parte, capeggiava il gruppo di Paesi deciso allo scontro frontale con Trump, mentre la Germania di Merz, assieme all’Italia e ad altri membri dell’Ue, spingeva per abbassare i toni dello scontro con l’amministrazione americana. Il risultato è che alla fine ha prevalso la posizione tedesca (e italiana), con il premio di vedere abbassati dal 25% al 15% i dazi sul settore automobilistico di enorme importanza soprattutto per Berlino. Il vero guaio è che ai dazi al 15% vanno aggiunti altri elementi che finiranno per aggravare l’intero costo dell’operazione von der Leyen-Trump.
Il primo elemento è, come noto, la progressiva perdita di valore del dollaro rispetto all’euro che dall’inizio dell’anno, secondo i calcoli di Confindustria, è calato di circa il 12%: cifra che va aggiunta a quella dei dazi.
Il secondo elemento di peggioramento della situazione è l’impegno europeo a spendere nei prossimi tre anni la bella cifra di 750 miliardi di dollari in acquisti di energia e di armamenti sul mercato statunitense. Ad esso è stata aggiunta un’ulteriore promessa di investire altri 600 miliardi negli Usa, chiedendo alle aziende e alle istituzioni finanziarie europee di spendere i propri soldi sul mercato americano. Un impegno in realtà molto aleatorio e poco realistico, poiché le previsioni di crescita dell’inflazione negli Usa rendono gli investimenti particolarmente rischiosi, anche alla luce dei tentativi di Trump di cacciare il capo della Fed, Jerome Powell, ultimo baluardo contro le prospettive inflazionistiche della politica economica di Trump.
Il terzo elemento di aggravio del contributo europeo al “ribilanciamento” fra le due economie voluto da Trump è l’impegno preso dai 27 poco più di un mese fa di portare in ambito Nato le spese per la difesa dal 2% al 5% nel giro di pochi anni.
C’è quindi nuovamente da chiedersi la ragione di questo cedimento europeo. Lo ha confessato il commissario europeo per il commercio, Maros Šefčovič, affermando che il negoziato con Trump non si è limitato ai dazi, ma che ha riguardato la sicurezza dell’Ue contro la Russia, il sostegno militare ed economico all’Ucraina, e l’obiettivo di assicurare un po’ di stabilità a un contesto geopolitico estremamente volatile.
Insomma, l’Ue ha dovuto riconoscere che non può fare ancora a meno del sostegno dell’alleato (si fa per dire) americano, non avendo gli strumenti istituzionali e politici per essere maggiormente autonoma. Non è solo Ursula ad aver perso, ma l’Ue come soggetto politico. L’Ue continua quindi ad essere un gigante economico, ma purtroppo sempre di più un nano politico in un mondo che cambia tumultuosamente.
Esperto di questioni europee e di politica estera, è Presidente del Comitato dei Garanti e Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali. È pubblicista e editorialista per Vita trentina (dal 2019) e Corriere del Trentino – Gruppo Cds (dal 2020).