Secondo una narrativa in voga fra i seguaci di Donald Trump, ma che ha un’eco non trascurabile anche in altri ambienti, il presidente americano sarebbe un leader “pragmatico”, che punta al sodo e a risultati rapidi. “È prima di tutto un negoziatore”, ha dichiarato di recente un membro del governo italiano. Una rappresentazione che non ha però grande riscontro nella realtà. In politica estera, nonostante le roboanti promesse elettorali, Trump non ha da esibire grandi successi. Anzi, le sue iniziative diplomatiche si sono presto arenate, finendo in un vicolo cieco. Gli andrà meglio con i dazi?
La bacchetta magica dei dazi
Più che da un calcolo pragmatico, Trump sembra mosso da una visione ideologica, che peraltro solo pochi consiglieri economici, anche nella sua cerchia ristretta, condividono appieno. Fra questi, il segretario al commercio Howard Nutwick e il consigliere capo per la politica commerciale Peter Navarro, due figure chiave dell’amministrazione. Trump li ha scelti proprio perché in sintonia con la sua idea che i dazi – “una parola bellissima” – possano avere una funzione salvifica per l’economia americana. La svolta protezionistica impressa dall’amministrazione dovrebbe mettere in condizione l’America, secondo Trump, non solo di azzerare il deficit commerciale, ma anche di ripristinare la sua supremazia industriale a livello globale, garantirsi l’“indipendenza” economica, e sanare i conti pubblici. Sono però cinquant’anni che gli Usa registrano, quasi tutti gli anni, un deficit commerciale ed è difficile negare che ne siano una causa anche alcune caratteristiche strutturali dell’economia americana, a partire dal fatto che gli americani spendono e investono di più di quanto guadagnino. Difficile che i dazi sanino da soli questo squilibrio. Trump, che ha una visione tutta sua di come funziona l’economia, vede invece i dazi come una panacea.
Gli ambiziosi obiettivi del protezionismo trumpiano non sono peraltro facilmente conciliabili tra loro. Se, per esempio, i consumatori americani si mettessero a comprare più beni nazionali, verrebbero a mancare una parte più o meno ampia delle entrate dai dazi che, nei piani della Casa Bianca, dovrebbero servire per ridurre stabilmente la pressione fiscale. Probabilmente la Casa Bianca sovrastima le possibili entrate generate dai dazi. Inoltre, sarà costretta quasi certamente a concedere onerosi sussidi ai settori, come quello agricolo, che saranno più colpiti dalle misure ritorsive che adotteranno gli altri paesi. Ciò compenserà in parte gli attesi vantaggi dei dazi per le finanze pubbliche. Più in generale, l’idea trumpiana che, grazie ai dazi, si possa arrivare a un livello molto più basso di tassazione sul reddito appare illusoria.
L’obiettivo della reindustrializzazione
Trump spera anche che i dazi spingano un numero cospicuo di aziende americane e straniere che ne sono colpite a trasferire le loro produzioni negli Usa. Alcune aziende potrebbero in effetti scegliere questa strada. Altre non lo faranno, perché non lo troveranno economicamente conveniente o adotteranno altre strategie per sopravvivere. Dipenderà ovviamente dai settori e dalle specifiche produzioni, oltre che dalle contromisure dei paesi colpiti dai dazi. È molto probabile che una parte consistente delle aziende aspetterà di vedere se l’amministrazione Trump è davvero determinata a seguire fino in fondo la strada intrapresa e se verranno intavolati negoziati.
Per avere l’atteso effetto incentivante sulle imprese, i dazi dovrebbero rimanere per un tempo sufficiente a convincerle che è nel loro interesse trasferirsi in America. Ma questo cozza con l’altro obiettivo dichiarato della stretta protezionistica: quello di ottenere concessioni consistenti dai partner commerciali; obiettivo realizzabile, in realtà, solo con concessioni anche da parte americana, cioè con la revoca di una parte dei dazi. Insomma, non è affatto chiaro se e quanto Trump, “il negoziatore pragmatico”, sia davvero disposto a trattare. Da alcune prese di posizione – per esempio di Navarro – e da certi obiettivi dichiarati, come la reindustrializzazione, sembrerebbe che la Casa Bianca intenda invece erigere un muro protezionistico destinato a durare nel tempo, con un potenziale impatto devastante sull’economia globale.
Tempistica problematica
Lo stesso Trump, di solito abituato a concentrarsi sugli effetti delle sue iniziative nel breve termine, sembrerebbe essersi rassegnato, nel caso della contesa commerciale, a ragionare in un orizzonte più lungo. Ha fra l’altro ammesso che nei primi tempi i consumatori americani soffriranno a causa dei dazi e non ha escluso neppure una recessione. Nel più lungo termine però l’industria americana tornerebbe a prosperare – questa la promessa – con benefici per tutti gli americani. Questa tempistica, peraltro assai vaga, mal si concilia però con le scadenze del ciclo politico americano. Non manca molto alle elezioni di metà mandato (novembre 2026) e, se il consenso per Trump, già ora in calo, dovesse scendere ancora a causa della mala gestione dell’economia, la prospettiva che i democratici conquistino la maggioranza al Congresso, spezzando l’attuale monopolio del potere federale da parte dei repubblicani, diverrebbe molto concreta. Trump si è spinto molto in là con le sue predizioni ottimistiche ed è probabile che pagherebbe un prezzo politico salato se i fatti le smentissero.
In realtà sul dossier commerciale, come su altri, la confusione regna sovrana all’interno dell’amministrazione. A chi gli chiedeva se i dazi erano destinati a durare, il ministro del tesoro Scott Bessent, che potrebbe lasciare presto l’amministrazione, ha risposto: “vediamo come si sente il presidente”. Questo clima di incertezza grava pesantemente sulle scelte delle aziende e degli investitori. Il crollo dei mercati azionari della scorsa settimana è un pessimo segnale e le crescenti tensioni tra Trump e il presidente della Federal Reserve Jerome Powell, contrario in questa contingenza ad abbassare i tassi, getta un’altra ombra pesante sulla capacità della Casa Bianca di gestire efficacemente l’economia del paese.
Vicepresidente vicario dell’Istituto Affari Internazionali e responsabile del programma di ricerca Multilateralismo e governance globale. Dal 2008 al 2017 è stato direttore dello IAI. Dal 2000 al 2006 è stato corrispondente per l'Economist Intelligence Unit e ha lavorato come visiting fellow alla Brookings Institution di Washington da gennaio 2006 a luglio 2007.