Un progetto dichiaratamente “rivoluzionario”, come quello federalista del “Manifesto di Ventotene”, non richiedeva solo audacia di pensiero. Non rappresentava solo un’ardita rottura con gli schemi tradizionali delle prassi e delle ideologie del tempo. Gli autori del “Manifesto” – Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli – seppero anche indicare un concreto programma di azione che ha ispirato generazioni di europeisti. L’obiettivo era la costruzione di un assetto federale che potesse garantire una pace duratura sul continente e rendere l’Europa padrona del suo destino.
Una fiducia laica nelle sorti dell’Europa
Certo, ci voleva coraggio per concepire e dare forma a un progetto così avanzato in un momento – siamo all’inizio del 1941 – in cui gran parte dell’Europa era sotto il giogo nazista e l’esercito hitleriano continuava la sua marcia di conquista. Colorni, Rossi e Spinelli non erano solo fiduciosi nella vittoria finale contro il nazifascismo. Speravano anche che nella “crisi rivoluzionaria”, che, prevedevano, avrebbe fatto seguito alla fine della guerra, maturassero circostanze favorevoli all’ideale europeista. Erano anzi convinti che “gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato a una riorganizzazione federale”. L’esperienza della guerra e dell’oppressione totalitaria era stato troppo dura, le miserie e le sofferenze che aveva provocato troppo vaste e strazianti per non indurre a un ripensamento sulle storture irrimediabili degli ordinamenti statali, che in nome del principio di nazionalità, avevano precipitato l’Europa nel baratro. Ma non erano degli ingenui. Sapevano che le cose avrebbero potuto andare diversamente, che le “vecchie abitudini, leggi, istituzioni, apparati di forza” avrebbero potuto tornare in auge e che le masse popolari, in preda alle passioni, avrebbero potuto essere di nuovo manipolate dalle “forze reazionarie” del nazionalismo. Il Manifesto è tutto permeato da questo senso di urgenza, della necessità imperativa di non sprecare l’occasione “rivoluzionaria” che si sarebbe presentata una volta abbattuto il nazifascismo.
Spiriti sommamente laici, gli autori del Manifesto respingevano ogni visione provvidenzialistica della storia, ogni storicismo fatalistico o consolatorio che potesse indurre alla passività o fiaccare l’azione. E non erano dei settari, tutt’altro: erano pronti a collaborare con tutti coloro che lottavano contro il totalitarismo nazista e avrebbero potuto contribuire alla sua disgregazione. ma “senza lasciarsi irretire dalla loro prassi politica”.
Critica del collettivismo
Gli autori del Manifesto erano anche ben consapevoli che l’ideologia collettivistica avrebbe potuto emergere in una posizione di forza dal conflitto mondiale e dedicarono nel testo molto spazio alla critica della “statizzazione generale dell’economia”, mettendo in guardia contro i regimi “in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”. Il Manifesto propugna un “socialismo” dai contorni non ben definiti, ma d’impronta liberale, e prende nettamente posizione contro la “collettivizzazione di tutti gli strumenti di produzione” in quanto “utopistica” e destinata inevitabilmente a sfociare in un regime oppressivo e dittatoriale. Vi si auspica un sistema economico in cui “possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica”. “La proprietà privata – vi si legge – deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso”. Non è affatto un inno al collettivismo, come ha lasciato intendere la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Tutto il contrario. È, peraltro, un’asserzione perfettamente in linea con il dettato della Costituzione italiana. Il sistema economico misto, a forte presenza dello Stato, costruito in Italia nel dopoguerra, coincide in larga parte con quello abbozzato nel Manifesto. Ernesto Rossi, uno degli artefici della ricostruzione post-bellica, ne fu dei più attivi promotori.
La via federalista alla pace
Ma l’importanza e l’originalità del Manifesto non stanno nella visione dei rapporti economici e sociali che avrebbero potuto o dovuto instaurarsi nel dopoguerra. La sua idea forza, quella che ne ha fatto una pietra miliare del pensiero politico contemporaneo, è un’altra: è l’idea che le guerre, in quanto conseguenza dell’anarchia internazionale, possono essere evitate solo attraverso la costruzione di un’entità politica federale che limiti la “sovranità assoluta” degli Stati nazionali. È quest’ultima, infatti, all’origine di quel “bellum omnium contra omnes” che rende strutturalmente instabile e precario qualsivoglia assetto dei rapporti internazionali, anche quelli regolati da accordi o regimi di cooperazione, ma che non prevedano autorità sovranazionali, come dimostra ad abundantiam la storia europea. Solo il trasferimento di poteri ad autorità politiche sovranazionali può far cessare lo stato di perenne anarchia che genera le guerre. È questa teoria delle cause della guerra, e dei benefici che i cittadini europei possono trarre da un compiuto assetto federale, il nucleo teorico originale del Manifesto. Originale, indubbiamente, anche se debitore delle riflessioni di Luigi Einaudi e di altri teorici, soprattutto anglosassoni, sull’applicabilità del modello federale degli Usa all’Europa. Le correnti ideologiche e di pensiero dominanti all’epoca teorizzavano altre cause della guerra: i liberisti puntavano il dito contro il mercantilismo economico; i democratici contro il dispotismo; i marxisti contro il sistema capitalistico. Gli autori del Manifesto ponevano invece l’accento sulla precarietà strutturale del sistema dei rapporti internazionali, proponendo, come rimedio, una sua radicale trasformazione attraverso una complessa e organica costruzione istituzionale.
Attualità del programma federalista di Ventotene
Nella prefazione al Manifesto scritta nel 1944, Eugenio Colorni riassumeva così i punti principali del programma federalista: “esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica”. Sono passati più di 80 anni dalla pubblicazione del Manifesto. Non sono pochi. Ma, a ben vedere, punti importanti di questo programma, far cui alcuni di carattere schiettamente federale, sono stati realizzati: dal mercato unico all’euro, dal sistema di Schengen all’elezione diretta del Parlamento europeo. Altri, come un’unica politica estera, che presuppone il superamento dell’unanimità, rimangono inattuati. Altri ancora, come un unico esercito europeo, non appaiono al momento realizzabili. Per molti versi, la costruzione europea rimane incompleta. Il parlamento europeo, per esempio, ha solo alcuni dei poteri che Spinelli avrebbe voluto gli venissero attribuiti e per i quali si è tenacemente battuto. Alcune conquiste, come la libera circolazione delle persone, sono oggi minacciate. Ma progressi significativi, ancorché incrementali, sono stati fatti in molti settori, compresa la difesa e la politica estera. L’UE ha inoltre dimostrato una notevole capacità di reazione alle ripetute crisi degli ultimi anni, creando una serie di nuovi strumenti di azione comune, basati su ulteriori condivisioni di sovranità. L’idea federalista del Manifesto di Ventotene rimane, quindi, più che mai viva e attuale. Non è solo una generica fonte di ispirazione, ma un programma concreto che può orientare l’azione nel presente e aiutare a mettere a fuoco gli obiettivi futuri.
Vicepresidente vicario dell’Istituto Affari Internazionali e responsabile del programma di ricerca Multilateralismo e governance globale. Dal 2008 al 2017 è stato direttore dello IAI. Dal 2000 al 2006 è stato corrispondente per l'Economist Intelligence Unit e ha lavorato come visiting fellow alla Brookings Institution di Washington da gennaio 2006 a luglio 2007.