Opposizione decimata alle legislative in Burundi

«L’opposizione parteciperà alle prossime elezioni da votante, non da candidata». Con queste parole, Prosper Ntahorwamiye, presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) del Burundi, a gennaio 2025, ha aperto l’anno elettorale. Infatti, nel giro di tre mesi, tra giugno e agosto, i burundesi rinnoveranno la camera bassa del Parlamento nazionale, i Consigli comunali e i Capi delle colline. Il Senato invece sarà eletto in modo indiretto dai consiglieri comunali.

La tornata elettorale si preannuncia infuocata. E i dati del Paese in fatto di libertà di opinione ed espressione, arresti arbitrari, sparizioni e detenzioni extragiudiziali dipingono uno scenario pre-elettorale caratterizzato da violenza e repressione.

Nulla di nuovo in realtà in questo piccolo Paese dell’Africa centrale, la cui storia è stata segnata da un succedersi di colpi di Stato e ondate di violenza a sfondo etnico. Oltre a una guerra civile (1993-2005) che ha coinvolto e visto scontrarsi i due gruppi etnici principali, hutu e tutsi.

Speranze di cambiamento

Nel 2005, con la conclusione della guerra civile e un accordo di condivisione del potere tra hutu e tutsi, Pierre Nkurunziza si è preso la scena politica burundese.

Presidente del Paese fino al 2020, Nkurunziza non ha mai esitato a usare la violenza per reprimere il popolo che chiedeva maggiori diritti e libertà. Un pugno di ferro dispiegato in tutta la sua crudeltà nel 2015 contro i manifestanti che protestavano contro la sua decisione di candidarsi per un terzo mandato (incostituzionale, dato il limite dei due sancito in Costituzione).

Nel 2020, però, Nkurunziza ha lasciato la massima carica dello Stato, designando come suo successore Evariste Ndayishimiye. All’epoca segretario generale del Consiglio nazionale per la difesa della democrazia-Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd) – partito che controlla la politica burundese dal 2005 – Ndayishimiye si è imposto con più del 70% dei voti. Ma, ancora una volta, il processo elettorale è stato macchiato da scarsa trasparenza. Il monitoraggio degli osservatori internazionali è stato impedito.

Tuttavia, agli occhi della comunità internazionale, il passaggio avvenuto ai vertici dello Stato ha portato con sé speranze di cambiamento. Effettivamente, nel corso del primo anno di presidenza, Ndayishimiye ha ordinato il rilascio di attivisti per i diritti umani e giornalisti che erano stati incarcerati sotto Nkurunziza. Le relazioni diplomatiche con Stati Uniti e Unione europea – crollate nel 2015 dopo la dura repressione dei manifestanti – hanno invece iniziato a risollevarsi.

Niente di nuovo

Ma, in realtà, nulla è cambiato. Per qualche attivista e giornalista che è stato rilasciato, ce ne sono tanti altri che sono stati incarcerati, nuovamente in modo arbitrario. Soprattutto se si occupavano di diritti umani, come l’avvocato Tony Germain Nkina e l’ex parlamentare Fabien Banciryanino, entrambi fermati a ottobre 2020.

Per arrestare la giornalista Floriane Irangagiye ad agosto 2022, invece, le forze di sicurezza hanno atteso che rientrasse nel Paese per visitare la famiglia. Avendo criticato l’operato del governo durante una diretta di Radio Igicaniro (una piattaforma in esilio), è stata accusata di aver “minato l’integrità territoriale nazionale”. E perciò condannata a dieci anni di carcere.

Anche le Ong sono duramente attaccate con arresti e intimidazioni. In particolare le organizzazioni il cui lavoro verte su temi “sensibili” per il governo. Tra questi la corruzione – estremamente diffusa tra la classe dirigente – e l’omosessualità – definita un “peccato”, vietata dal Codice penale e punita con la reclusione.

Per silenziare qualsiasi voce di dissenso, accuse come “ribellione” e “minaccia alla sicurezza interna dello Stato” sono ormai diventate lo strumento privilegiato dell’esecutivo. Il cui controllo su polizia ed esercito è pressoché totale. Mentre la milizia giovanile del Cndd-Fdd, l’Imbonerakure – famosa per le continue violazioni dei diritti umani – attacca i dissidenti, soprattutto durante i raduni pubblici.

La scure contro le voci critiche si è accompagnata a un processo di chiusura del Paese nei confronti dell’esterno. I rappresentanti dell’Unhcr sono stati espulsi nel 2016 e tre anni dopo l’agenzia è stata costretta a chiudere i suoi uffici a Gitega. Nel frattempo, il Burundi ha abbandonato il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite. E si è rifiutato di accettare qualsiasi visita di esperti volta a stilare report sulla situazione umanitaria interna.

Opposizione sotto attacco

A peggiorare ulteriormente il clima pre-elettorale ha contribuito anche il tentativo della Ceni di mettere fuori gioco mezza opposizione. A gennaio, infatti, l’organo – incaricato di organizzare e supervisionare il voto – ha rifiutato le liste di diversi partiti, sostenendo che non rispettassero alcuni articoli del Codice elettorale. In particolare, riteneva che non venissero garantiti gli equilibri etnici – 60% di candidati hutu e 40% di tutsi – e di genere – 30% di donne.

In realtà, l’obiettivo dell’esecutivo era estromettere i suoi principali rivali. Cioè il Congresso nazionale per la libertà – maggiore partito di opposizione – e la coalizione Burundi bwa bose – nata nel 2024 e composta da diverse figure di spicco del panorama politico burundese. Alla fine, dopo alcune modifiche, le liste di entrambi i movimenti sono state ammesse al voto per le legislative, ma rifiutate per le comunali.

Dall’inizio della campagna elettorale (13 maggio), qualsiasi rivale del Cndd-Fdd è costantemente sotto attacco. I raduni sono interrotti con la violenza dalla polizia e dall’Imbonerakure. Diversi attivisti sono stati arrestati e torturati. Violenze e intimidazioni sono continue e sistematiche, nell’intento di spaventare e indurre al ritiro il maggior numero possibile di candidati.

Come si vota

Cento deputati sono eletti in modo diretto, in 18 circoscrizioni plurinominali con liste bloccate e sistema proporzionale.

Una volta conteggiati i voti e distribuiti i seggi, la Ceni poi aggiunge un numero variabile di deputati. Li sceglie tra i candidati non eletti dei partiti (a patto che il movimento abbia ottenuto almeno un seggio) affinché la nuova Assemblea nazionale rispetti perfettamente i requisiti etnici (60% di hutu e 40% di tutsi) e di genere (30% di donne). Infine, vengono cooptati anche tre membri della comunità twa, individuati negli elenchi presentati dalle loro organizzazioni di rappresentanza comunitaria.

È la prima volta dal 2005 che le elezioni legislative e quelle presidenziali non coincidono. Nel 2015, infatti, un referendum ha allungato (a partire dal 2020) la durata del mandato del capo dello Stato da cinque a sette anni. Eppure questa campagna elettorale ha sempre più il sapore delle presidenziali. Un po’ per la mobilitazione imponente di risorse e per la discesa in campo dei pesi massimi del partito di governo e dell’opposizione. E un po’ per i toni infuocati, la violenza e la repressione delle voci di dissenso.

In un clima sempre più teso, dunque, il voto del 5 giugno non sta facendo altro che scavare il solco per il prossimo voto. La macchina della repressione si rafforza, preparando la strada al secondo mandato di Ndayishimiye come capo dello Stato.

di Aurora Guainazzi

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