Yemen: è tregua, fra attesa e proteste

Poche settimane per tornare a parlarsi. O per tornare, diffusamente, alle armi. Lo Yemen, in guerra dal 2015, è a un bivio: gli attori yemeniti (e i loro sponsor regionali) cercano davvero la pace, o stanno solo guadagnando tempo prima di rilanciare l’offensiva?

Nonostante alcune violazioni, la tregua nazionale mediata dall’Onu, in vigore da aprile, tiene ed è stata rinnovata: scadrà il 2 agosto. L’Arabia Saudita, che in Yemen ha militarmente fallito, l’appoggia, provando intanto a ricostruire il fronte politico anti-Houthi: un Consiglio Presidenziale di otto membri ha sostituito il debole presidente Hadi, spinto da Riyadh a lasciare.

Non è però affatto detto che l’interruzione dei combattimenti si trasformi in un formale cessate il fuoco. Infatti, non esistono negoziati politici tra gli yemeniti, anche se l’Onu ha riunito un comitato militare per l’attuazione tecnica della tregua e, soprattutto, Houthi e Arabia Saudita avrebbero ripreso i colloqui per la sicurezza del confine, mediati dall’Oman. Improbabile che gli Houthi, arrivati a un passo dall’attacco ai ricchi siti petroliferi di Marib, si fermino o cedano parte dei territori controllati, tra cui Sanaa. Altrettanto improbabile che le istituzioni riconosciute (e Riyadh) riconoscano un paese diviso a metà. Anche se il frammentato Yemen è da tempo diventato la terra dei micro-Stati.

Sollievo umanitario, disastro economico

La tregua sta intanto offrendo una boccata d’ossigeno agli yemeniti: il numero delle vittime civili si è dimezzato e gli aiuti umanitari possono raggiungere le aree più problematiche. Le navi con carburante attraccano ora ai porti del governatorato di Hodeida (Mar Rosso), ancora controllato dagli Houthi. Due voli civili a settimana, da e per l’aeroporto di Sanaa, collegano lo Yemen a Egitto e Giordania.

Niente da fare invece, per Taiz, che rimane isolata dal 2015: gli Houthi non hanno riaperto le strade intorno alla terza città del Paese, la sua capitale culturale nonché il cuore dell’Islam politico yemenita, con il governo riconosciuto che denuncia “l’assedio intenzionale”.

In tutto il paese, la situazione economica è drammatica, a causa del conflitto e delle politiche monetarie rivali delle due Banche centrali. La moneta locale, il riyal, si è fortemente svalutata e l’inflazione è ai massimi: lo Yemen dipende per il 90% dall’import di cibo. Una condizione che cronicizza l’economia di guerra, i cui network hanno ormai permeato ciò che resta delle istituzioni, finanziando le ostilità e arricchendo i capi-milizia.

Il “governo” autoritario degli Houthi a nord

Fuorviante ormai definire gli Houthi come insorti o ribelli: di fatto, “governano”, seppur non riconosciuti, gran parte del nord-ovest yemenita. Proprio la prova del “governo” evidenzia il carattere autoritario e repressivo del movimento-milizia sciita del nord, sostenuto dall’Iran.

Come documenta il report delle Nazioni Unite del gennaio 2022 gli Houthi si auto-finanziano riscuotendo tasse e dazi su petrolio e telecomunicazioni, confiscando proprietà e fondi a cittadini e imprese. Il dissenso viene contenuto con intimidazioni, detenzioni arbitrarie e ricorso alla tortura, pratiche che – insieme alla violenza sessuale e a false accuse di prostituzione – colpiscono anche le attiviste o yemenite con attività professionali, restringendo così la presenza femminile nella comunità. Poi c’è la questione dell’indottrinamento alla violenza e all’odio.

Per gli adulti, partecipare ai corsi culturali degli Houthi significa – laddove non vi sia adesione ideologica – poter lavorare o ricevere aiuti. Ma la propagazione dell’ideologia passa anche attraverso i programmi scolastici. I campi estivi per i più giovani, presso scuole o moschee, avviano all’addestramento militare: nonostante un accordo con l’Onu, gli houthi continuano a reclutare bambini-soldato (dai dieci anni in su). Dal 2014, gli Houthi avrebbero “forzatamente reclutato” 10.300 bambini attraverso istituzioni educative e compensi economici alle famiglie.

Proteste e attentati nel sud

Nei territori formalmente controllati dal governo, la frammentazione militare e politica è forte. Il Consiglio presidenziale appena nominato la fotografa bene: sono presenti i leader dei principali gruppi armati, i governatori più influenti e persino il presidente dell’autoproclamato, nonché secessionista, Consiglio di Transizione del Sud, che ha però aderito al governo riconosciuto di Aden. Il nuovo vertice è nato per volontà dell’Arabia Saudita, ma tanti membri sono legati agli Emirati Arabi Uniti (Eau): tutti insieme contro gli Houthi, ma senza un’agenda condivisa per lo Yemen.

Intanto, ad Aden e nelle principali città meridionali, tornano le proteste popolari, riaccesesi dal 2021, contro caro-vita, disoccupazione e tagli all’elettricità: lo Stato paga gli stipendi pubblici a singhiozzo, quando riesce. A oltre dieci anni dalle rivolte del 2011, gli yemeniti protestano ancora, insoddisfatti delle realtà di governance locale che spesso hanno sostituito quelle statali. E la violenza persiste: sono frequenti gli attacchi di matrice jihadista contro posti di blocco e forze di sicurezza; esponenti politici del partito Islah (Fratelli musulmani e parte dei salafiti) sono stati uccisi con armi da fuoco (agguati attribuiti agli Houthi); l’ennesimo giornalista yemenita, Saber Al-Haidari, è stato ucciso con un’autobomba ad Aden.

Fra speranza e realismo

In un quadro così difficile, il periodo di tregua nazionale offre un bagliore di speranza: non ci sono stati bombardamenti della Coalizione guidata dall’Arabia Saudita sullo Yemen, né lanci di missili e droni da parte degli Houthi contro il regno saudita, gli Eau o obiettivi nel Mar Rosso.

Certo, gli yemeniti non sono neppure riusciti ad accordarsi sulla FSO Safer, la petroliera abbandonata al largo di Hodeida dal 2015, con più di un milione di barili di petrolio ancora stoccati nella stiva. Gli Houthi impediscono ancora le ispezioni dei tecnici Onu: il rischio concreto è che il greggio si sversi nel Mar Rosso o che la nave prenda fuoco, danneggiando l’ambiente e l’economia locale. Quasi una metafora dello Yemen in bilico fra opportunità e abisso.

Foto di copertina EPA/YAHYA ARHAB

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