Salvo deroghe. Si potrebbe riassumere così il senso del sesto pacchetto di sanzioni approvato dall’Unione europea nei confronti della Russia, che se da un lato stringe ancor di più il cappio intorno al collo di Mosca, dall’altro dimostra ancora una volta come nel muro europeo ci sia un pertugio di oltre 93mila chilometri quadrati: l’Ungheria.
L’eccezione ungherese
Il primo ministro Viktor Orbán, dopo aver ottenuto una clausola sull’embargo del petrolio russo che garantisce a Budapest l’arrivo del greggio via terra grazie all’oleodotto di Druzhba, è riuscito a strappare agli altri 26 Paesi dell’Unione la rimozione dalla black list stilata da Bruxelles del patriarca di Mosca, Kirill.
Quest’ultimo, infatti, era stato inserito tra le personalità da sanzionare in quanto, tra le altre cose, “responsabile del sostegno o dell’attuazione di azioni o politiche che minano o minacciano” l’Ucraina e “uno dei più importanti sostenitori dell’aggressione dell’esercito russo contro l’Ucraina”. Budapest, però, si è messa di traverso, dimostrando ancora una volta la sua unicità nell’Unione e approfondendo la faglia che, da qualche settimana, sta lacerando quello che un tempo era un blocco unito, il gruppo di Visegrád.
Un successo per l’Ungheria e il suo primo ministro, che in una nota del proprio portavoce ha affermato come sarebbe stato “inappropriato” inserire il patriarca Kirill tra i soggetti da sanzionare, in quanto ciò avrebbe di fatto negato “i principi fondamentali della libertà religiosa”. Anche se, tra Orbán e il leader della Chiesa ortodossa russa, c’è qualcosa in più del mero formalismo giuridico.
Orbán-Kirill, la cristianità che si fa politica
Una “corrispondenza d’amorosi sensi”, avrebbe scritto Ugo Foscolo. Che, a ben guardare, c’è. In Ungheria, la maggioranza della popolazione è religiosa e, in particolare, cattolica. Orbán, al contrario, è calvinista. Anime diverse del cristianesimo, sul quale il primo ministro ungherese ha radicato fortemente il proprio governo e con il quale legittima la propria idea di società e di un ordine alternativo dell’Europa centro-orientale.
Nel 2017, in un discorso tenuto in Transilvania, Orbán ha spiegato come proprio i Paesi dell’est, 27 anni prima, vedevano nell’Europa il futuro. “Adesso, pensiamo che noi siamo il futuro dell’Europa”. Un avvenire diverso da quello occidentale, dunque, che si muova su una strada diversa da quella imboccata dagli altri, che si sono allontanati dalle radici cristiane del continente, dispersi nel multiculturalismo e nel relativismo.
Per Orbán la cristianità deve farsi politica e da questo passaggio dipende il futuro dell’Europa. Un concetto che, proprio per quegli “amorosi sensi”, trova sincera accoglienza nel patriarcato di Mosca. Kirill, del resto, non ha mai mancato nel suo sostegno al concittadino Vladimir Putin, anch’egli di San Pietroburgo come il patriarca. Un “miracolo di Dio”, come lo ha definito, che soprattutto negli ultimi anni si è accorto delle potenzialità agglutinanti dell’ortodossia nello spazio ex sovietico. Ucraina compresa.
Budapest vista da Francesco
Nell’incontro da remoto avvenuto tra il patriarca Kirill e papa Francesco, quest’ultimo ha ricordato al primo il ruolo dei religiosi: non cappellani di guerra, ma medici di campo. Al Corriere della Sera, in un’intervista, Bergoglio era stato ancor più chiaro, definendo Kirill come “chierichetto di Putin”.
Una forte presa di posizione, arrivata dopo i lunghi silenzi del patriarca. Se Francesco non ha esitato a definire “guerra” quella che Mosca presenta come “operazione militare speciale” in Ucraina, Kirill ha tergiversato per qualche giorno e, infine, ha avallato l’attacco. Una sorta di crociata, nell’immaginario del patriarca, che ha bollato come “forze del male” i Paesi ostili alla Russia e che, proprio per questo, consegna all’aggressione russa i crismi della lotta contro l’Apocalisse ovvero, la perdita dei valori cristiani.
Bergoglio, al contrario, non vede l’Apocalisse in arrivo. Lo sguardo di Francesco mantiene sempre un orizzonte ultraterreno: non si dà a questo mondo il compimento del bene. Per questo, cattolicesimo e cristianità non possono abbracciare sistemi politici o alleanze militari, perché ciò significa sacralizzare il contingente.
Per questo, l’uso che anche Orbán fa della religione, come anche altri leader politici, è fermamente condannato dal papa, sin dal suo insediamento nel 2013. Ciò, naturalmente, proprio in coerenza con questa impostazione, non preclude a incontri tra i due, uno dei quali avvenuto anche dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Dialogare con tutti, senza distinzioni tra buoni e cattivi, per Francesco è essenziale nella costruzione della pace.
Foto di copertina ANSA/MAXIM SHIPENKOV