“Aiuteremo il nostro paese a risollevarsi”. È con questo impegno che Donald Trump ha vinto le elezioni del 5 novembre. La maggioranza dell’elettorato gli ha dato credito. La promessa, seducente, è di un cambiamento che arresti il declino dell’America, ne sani le ferite interne e ne ristabilisca il prestigio e l’influenza sul piano internazionale. Una promessa che riguarda innanzitutto la politica interna, ma anche, e in misura non trascurabile, quella estera.
Pacifismo trumpiano
Nel discorso della vittoria, insolitamente privo di asprezze, Trump si è enfaticamente riproposto come pacificatore, l’unico in grado di risolvere i conflitti internazionali in corso, affrancando gli Usa, quanto prima, dal costoso e, al contempo, inconcludente interventismo dell’amministrazione Biden. Non solo di quest’ultima, ma anche di tutte le amministrazioni precedenti, ad eccezione, beninteso, della sua del 2017-2021.
Specialmente negli ultimi giorni di campagna elettorale, Trump ha ripetutamente rispolverato l’accusa a George W. Bush di essere “andato stupidamente in Medioriente” – definendo l’invasione dell’Iraq, “il peggior errore mai fatto nella storia americana” – e di aver, in tal modo, “distrutto” la regione. Ha definito Kamala Harris una “guerrafondaia”, attribuendole l’intenzione di voler, a sua volta, “invadere il Medioriente”. A Biden ha imputato, oltre ai fallimenti in Medioriente, anche un maldestro sostegno all’Ucraina senza un dialogo, a suo dire indispensabile, con Putin: un attivismo velleitario e senza strategia.
È probabile che questi giudizi liquidatori di Trump sulla politica estera dei suoi predecessori interventisti e il suo impegno, pur vago, a una più accorta proiezione dell’America all’estero, abbiano trovato un’eco considerevole nell’elettorato, contribuendo al suo successo. L’amministrazione Biden si è molto dedicata, in varie regioni, a rinsaldare le alleanze contro i rivali strategici e, specie in Medioriente, non ha risparmiato gli sforzi diplomatici per scongiurare l’escalation. A conti fatti, non ha colto però nessun successo visibile, almeno agli occhi di un elettorato che l’ha vista, invece, sempre più invischiata in conflitti privi, in apparenza, di sbocco. Trump ha fatto leva sulla diffusa percezione che molti impegni di politica estera drenino grandi risorse senza effetti apprezzabili e che, invece, sia necessario concentrarsi su interessi primari, come il controllo dei flussi migratori.
L’illusione del disimpegno
Anche altri presidenti americani – tutti, in realtà, quelli che si sono succeduti dopo la fine della Guerra Fredda – hanno coltivato la speranza di potersi concentrare di più sulla politica interna, riducendo gli impegni internazionali anche grazie a una diversa divisione delle responsabilità con gli alleati. Ma poi le varie crisi ed emergenze internazionali li hanno costretti tutti, senza eccezioni, a rivedere i loro piani. Bill Clinton, che aveva fatto la campagna elettorale sullo slogan “it’s the economy, stupid”, è intervenuto in Bosnia e nel Kosovo. George W. Bush, all’inizio intenzionato a selezionare gli interventi, quando si è ritrovato a fronteggiare l’11 settembre, ha risposto, fra l’altro, dando avvio a massicce campagne militari in Medioriente. Barack Obama, che aveva promesso di ritirarsi al più presto dalla regione, ha deciso di rimanere in Afghanistan – aumentando, a un certo punto, la presenza militare – e ha anche dato il via libera alla guerra contro Gheddafi.
Il punto è che non è affatto facile per l’America disimpegnarsi dai teatri di conflitto o anche solo ridurre la sua presenza nelle regioni strategicamente importanti, specie quando ciò significa lasciare spazio a potenze rivali, come Cina e Russia: un problema che si è ulteriormente acuito negli ultimi anni a causa del crescente antagonismo con Mosca e Pechino, e con cui anche Trump dovrà inevitabilmente fare i conti.
Allergia per il multilateralismo
Certo, Trump ha una visione dei rapporti internazionali sui generis, difficilmente assimilabile a quella di qualsiasi leader precedente. Non è un isolazionista, se con questo termine s’intende un sistematico rifiuto degli impegni internazionali, ma il suo esasperato protezionismo commerciale e l’idea che l’America debba dedicare più risorse alla sicurezza interna lo rendono tutt’altro che propenso ad accordi o alleanze strutturate, soprattutto se implicano il rispetto di regole e vincoli che limitano la libertà d’azione del paese. Non crede nella governance globale e non vede di buon occhio, in particolare, i regimi e le istituzioni multilaterali, come ha dimostrato durante la sua presidenza, con decisioni come il ritiro dall’Unesco e dall’Organizzazione mondiale della sanità, scelte che probabilmente ripeterà molto presto una volta insediato alla Casa Bianca. Né ha mai fatto mistero della sua spiccata allergia agli accordi per il controllo degli armamenti, alcuni dei quali sono collassati anche per sua scelta (oltre che per responsabilità di Putin). Il regime di non proliferazione nucleare, da tempo sotto pressione, sarà ancora più a rischio con Trump che già nel 2018, ritirandosi dall’accordo sul programma nucleare iraniano, lo aveva seriamente danneggiato. Anche l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), uno dei pilastri dell’architettura multilaterale, già oggi semiparalizzato, potrebbe non sopravvivere a questa seconda amministrazione Trump, che sembra fermamente intenzionata a introdurre una nuova e più massiccia ondata di dazi commerciali in ossequio al principio ”America first”.
Sicuramente Trump interromperà ogni tentativo di promuovere i diritti umani nel mondo. Biden non ci aveva del tutto rinunciato, pur incappando ripetutamente nella trappola del “double standard”, e continuava a coltivare l’idea che la diplomazia americana dovesse prioritariamente far perno su alleanze con gli altri paesi democratici. Questo rigetto di ogni visione “idealistica” dei rapporti internazionali è uno dei tratti distintivi della politica estera di Trump che più piace fuori dal campo occidentale e potrebbe in effetti aiutarlo a coltivare alcune relazioni bilaterali.
Le sfide dell’Ucraina e del Medioriente
Anche l’immagine di negoziatore abile e pragmatico, capace di farsi valere sulla scena internazionale, con cui Trump ha amato presentarsi, potrebbe aver fatto presa su un segmento dell’elettorato. La sua diplomazia personale, incentrata sui rapporti con i leader più potenti, inclusi dittatori che mirano a indebolire l’America, lo espone però costantemente al rischio di essere surclassato o manipolato, come accaduto durante la sua prima presidenza con il nordcoreano Kim Jung-un. Tanto più quando si tratta di iniziative diplomatiche non sostenute da una credibile strategia negoziale o di premature aperture di credito.
Che farà con Putin a proposito dell’Ucraina? Un accordo territoriale è oltremodo impervio. Kyiv non vuole cedere sul principio dell’integrità territoriale – per Zelensky, come per eventuali suoi successori, sarebbe un suicidio politico – e, d’altra parte, Mosca non controlla pienamente nessuna delle quattro regioni che si è illegalmente annessa e che vorrebbe le fossero riconosciute. Inoltre, l’obiettivo dichiarato di Putin non sono solo le conquiste territoriali ma, come ha detto più volte, un’Ucraina demilitarizzata e neutrale, cioè priva di garanzie di sicurezza credibili contro future aggressioni: un’Ucraina, quindi, amputata e alla sua mercé. Difficile raggiungere un accordo su questa base.
Trump potrebbe tagliare gli aiuti militari all’Ucraina per indurla a più miti consigli, ma, se vuole davvero ottenere concessioni da Putin, questa sarebbe l’ultima cosa da fare. Non è certo nel suo interesse mostrarsi troppo debole e accomodante verso il Cremlino. Altri leader ostili all’America non mancherebbero di prenderne nota.
In Medioriente ci si aspetta che sia più accomodante di Biden verso il premier israeliano Benjamin Netanyahu, suo grande amico e sostenitore. Durante le sua prima presidenza, tante furono le concessioni di cui lo gratificò, come il riconoscimento di Gerusalemme come capitale e della sovranità territoriale sul Golan. Potrebbe dargli mano libera a Gaza, accettando una presenza militare permanente di Israele nella Striscia e nuovi spostamenti della popolazione palestinese, ma pagherebbe un prezzo nei rapporti con i paesi arabi, l’Arabia Saudita in particolare, a cui, come già Biden, vorrebbe estendere gli “Accordi di Abramo”, suo principale successo durante la prima amministrazione.
Biden ha cercato di contenere le azioni militari israeliane contro Hezbollah e l’Iran nel tentativo di evitare un’escalation. Netanyahu ha concordato con la Casa Bianca gli obiettivi e le modalità di quelle a più ampia portata. Per frenare Netanyahu, Trump potrà continuare a fare leva sulle capacità di deterrenza delle forze americane nell’area e sulla protezione che possono offrire contro gli attacchi di Iran e Hezbollah. In linea generale, anche Trump dovrebbe essere interessato a una de-escalation in Medioriente, ma rimane incerto, in particolare, quale atteggiamento assumerà verso l’Iran. Vorrà tornare alla sua politica di “massima pressione” verso Teheran, ma potrebbe anche essere tentato di attuare un intervento preventivo contro gli impianti nucleari iraniani.