Se Donald Trump tornasse alla Casa Bianca, il Golfo sarebbe al centro della sua politica in Medio Oriente: questa è l’unica (quasi) certezza in un contesto contraddistinto dall’imprevedibilità delle dinamiche mediorientali – appese all’evoluzione della guerra di Israele a Gaza – e, ancor di più, del personaggio Trump. L’Iran sarà l’osservato speciale. Ma, questa volta, l’Arabia Saudita avrebbe meno interesse a un’ “amministrazione di falchi” verso Teheran. Dal 2018, il ritiro unilaterale di Washington dall’accordo sul nucleare iraniano (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA) ha infatti segnato negativamente il Medio Oriente, con implicazioni di sicurezza che vediamo ancora oggi: dai rischi marittimi per il commercio al protagonismo delle variegate milizie filo-iraniane nella regione.
Eppure, c’è una costante che ha fin qui attraversato tre amministrazioni assai diverse, ovvero il secondo Obama, Trump e Biden: la volontà di ridurre l’impegno USA in Medio Oriente non riesce ancora a tradursi in un compiuto equilibrio di potenza, guidato dagli Stati regionali. Dopo il brutale attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre, la tela degli Accordi di Abramo è ancora lì ma più sgualcita, mentre la de-escalation fra Arabia Saudita e Iran tiene più per mancanza di alternative che per convinzione delle parti.
Che effetto potrebbe avere una nuova presidenza Trump in un Medio Oriente in guerra acuta, per di più dentro un contesto internazionale maggiormente frammentato del 2017, anno in cui Trump entrò, per la prima (unica?) volta alla Casa Bianca? Come potrebbe Trump ripristinare l’eroso potere di deterrenza USA in Medio Oriente senza impegnarsi di più nel quadrante?
Il Golfo al centro. Affari sì, ma anche solitudine
Nel mandato 2017-2021, la politica mediorientale di Trump è iniziata e si è conclusa nel Golfo. Il suo primo viaggio estero dopo l’elezione fu infatti in Arabia Saudita (maggio 2018); l’ultimo atto politico in Medio Oriente della sua presidenza è stata la designazione degli houthi dello Yemen come organizzazione terroristica (gennaio 2021, poi revocata da Biden). Nel mezzo c’è stata la politica della “massima pressione” di Washington nei confronti dell’Iran, incentrata sulle sanzioni economiche, prima e dopo il ritiro unilaterale degli USA dall’accordo sul nucleare, negoziato dal gruppo del 5+1 nel 2015.
Da quel momento, le monarchie del Golfo, a cominciare dall’Arabia Saudita, hanno direttamente assaggiato i limiti politico-strategici dell’alleato Trump. Eppure, i rapporti erano stati fin lì eccellenti, sull’onda dell’approccio transactional (vedi i contratti per la fornitura d’armi) e orientati alle relazioni personali del presidente (vedi il ruolo del genero e consigliere Jared Kushner). Mai Riyadh e dintorni si sono però sentiti più soli che nel settembre 2019, quando un sofisticato attacco di matrice iraniana, con missili e droni, contro impianti di Saudi Aramco dimezzò per due settimane la produzione petrolifera del regno. Quell’evento – un autentico shock per la leadership saudita – mise a nudo la ´solitudine` di Riyadh e delle monarchie del Golfo, poiché nessuna reazione militare arrivò dall’amministrazione Trump, né tantomeno l’agognato patto di sicurezza Stati Uniti-Arabia Saudita. Quel senso di ‘abbandono politico’ ha accelerato due tendenze: la scelta delle monarchie di diventare più autonome nella (auto)difesa e in politica estera, abbracciando il multipolarismo.
Quella continuità fra Trump e Biden
In verità, seppur con toni e stili diversi, le amministrazioni di Trump e Biden si assomigliano nella politica mediorientale per tre elementi. Il primo è il sostegno ai processi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e i paesi arabi. Gli Accordi di Abramo del 2020, siglati tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, sono stati l’unico lascito costruttivo in Medio Oriente della stagione trumpiana. Un disegno – endogeno, anche se appoggiato dall’esterno – di ridefinizione degli equilibri di potere nella regione che Biden ha consolidato ed espanso, con le trattative per la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, poi congelate da Riyadh dopo il 7 ottobre.
Il secondo elemento è la presenza marittima in Medio Oriente, anche se gli attacchi di matrice iraniana contro la navigazione commerciale sono iniziati proprio in seguito all’uscita americana dal JCPOA. Trump istituì nel 2019 l’International Maritime Security Construct (IMSC) Operazione Sentinel per proteggere, dopo gli attacchi alle petroliere, la libertà di navigazione fra Stretto di Hormuz, Mar Arabico, Bab el-Mandeb e Mar Rosso Meridionale. Nel 2022-23, Biden ha istituito due nuove task forces delle Combined Maritime Forces a guida USA: la CTF 153 per la sicurezza marittima e la CTF 154 per l’addestramento delle guardie costiere locali. Poi, dopo l’escalation degli houthi contro le navi commerciali in transito nel Mar Rosso, è giunto l’annuncio della missione Prosperity Guardian, che opererà sotto l’ombrello della CTF 153.
Il terzo elemento è la crescita dell’influenza della Cina in Medio Oriente. Un fenomeno acuitosi negli anni di Trump e poi proseguito con Biden, con un graduale scivolamento da un’influenza prettamente economico-commerciale (durante il mandato Trump), ad ambizioni anche diplomatiche (nel periodo Biden, vedi la ripresa delle relazioni fra Arabia Saudita e Iran siglata a Pechino nel 2023).
Perché l’Arabia Saudita preferirebbe (ora) un Trump più diplomatico con l’Iran
Il Medio Oriente del 2024 si preannuncia, però, molto diverso da quello che Trump lasciò all’inizio del 2021, sebbene permanga il nodo Iran. Dopo una stagione conflittuale, il motore della politica regionale è ora l’economia: sauditi e iraniani si parlano, il Qatar non è più sotto l’embargo dei vicini, gli Emirati Arabi e la Turchia hanno messo tra parentesi la competizione aspra, lo Yemen cerca di trasformare la tregua del 2022 in un cessate il fuoco. D’improvviso, il 7 ottobre e la guerra a Gaza hanno però aperto un potenziale baratro: quale impatto avrebbe adesso un’eventuale presidenza Trump sui processi di riequilibrio regionale?
Dopo l’attacco a Saudi Aramco del 2019, l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo hanno percepito negativamente la mancata reazione degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran e dei suoi alleati armati. Ora potrebbero, invece, temere una postura troppo aggressiva da parte di Trump verso l’Iran che metterebbe in difficoltà la diplomazia regionale, esponendole a rischi di ritorsioni. Il timore dei sauditi per l’overreaction americana già traspare persino nei confronti di Biden, come rivela la dissonanza rispetto al ´che fare` davanti agli attacchi houthi nel Mar Rosso.
Più il conflitto Hamas-Israele si trascina, più il rischio di allargamento ad altri fronti cresce, non soltanto per calcolo, ma soprattutto per errore. In questo senso, l’Iraq sarà un banco di prova nel 2024, data la presenza nel paese di soldati USA e di milizie sciite irachene filo-iraniane. È ancora prematuro fare previsioni, ma di sicuro un’eventuale nuova presidenza Trump potrebbe non suonare lo stesso spartito del 2017, dati i profondi cambiamenti avvenuti in Medio Oriente e nell’ordine internazionale.