Tempi e equilibri in Medio Oriente

Sarebbe impossibile capire le ragioni e la tempistica dell’attacco di Hamas a Israele senza situarla nel contesto degli sviluppi regionali in corso. Nel corso degli ultimi mesi, l’amministrazione Biden ha operato non poche pressioni su Riyadh, perché Arabia Saudita e Israele arrivassero ad una normalizzazione delle loro relazione diplomatiche.

Gli equilibri trascurati da Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita

L’espansione degli Accordi di Abramo alla principale monarchia del Golfo, l’Arabia Saudita, avrebbe costituito un’enorme vittoria per il governo israeliano di Benjamin Netanyahu, soprattutto qualora questa fosse avvenuta senza sostanziali concessioni sulla questione palestinese. Un tale accordo avrebbe infatti obliterato la questione palestinese come variabile degli equilibri regionali. L’avrebbe trasformata da causa simbolica—sulla quale paesi del mondo Arabo e non nel corso della storia hanno costruito la loro legittimità—a semplice questione umanitaria. Una normalizzazione tra Israele e Riyadh conclusa con concessioni simboliche sulla Palestina avrebbe poi elevato Riyadh a primus inter pares tra le potenze regionali rivali (Turchia, altri paesi del Golf e soprattutto Iran) privando i movimenti paramilitari sostenuti da questi paesi in Libano, Siria, Iraq e Hamas nella striscia di Gaza, di una ragione di esistere.

Ma il Medio Oriente ha i suoi tempi e i suoi equilibri da rispettare. Mossi da hybris e da fretta, Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele hanno infranto le regole non scritte di questa regione. Biden premeva per concludere l’ “accordo del secolo” prima delle elezioni presidenziali; Netanyahu puntava ad un accordo che concedesse ai Sauditi arsenale militare evitando al suo governo la minima concessione sulla Palestina; il principe Saudita Mohamed Bin Salman desiderava erigersi a polo stabilizzante della regione. L’attacco è quindi il risultato di un’accelerazione della normalizzazione tra Israele e mondo Arabo voluta, per motivi diversi, da questi tre attori trascurando i rischi che ne potevano scaturire: il ritorno al conflitto aperto in Israele e Palestina; le rivendicazioni dell’Iran che temeva di essere accerchiata sempre di più da Israele e quelle di altre potenze regionali come Turchia o altre Monarchie del Golfo, che non accettano di essere relegate a un ruolo di secondo rango dall’Arabia Saudita.

Un cambio di rotta repentino

L’attacco costringe a un cambio di rotta repentino. Riporta la questione palestinese al centro degli equilibri regionali, la carica di un rinnovato potere mobilitante tra le opinioni pubbliche del mondo arabo e riduce le prospettive di normalizzazione tra Israele e mondo Arabo. Al di là dell’effettivo legame ideologico e logistico tra Hamas e l’Iran, l’attacco di fatto ripropone il regime di Tehran e suoi affiliati, come attori indispensabili di qualsiasi accordo regionale, rimette in questione il ruolo dell’Arabia Saudita come motore e fulcro della stabilità regionale, rompe il clima della diplomazia regionale reintroducendo la forza come mezzo per regolare i conti.

A perdere sono gli Stati Uniti e l’Europa, che pur sostenendo Israele, rischiano che il conflitto degeneri in un nuovo ciclo di scontri regionali tra Israele e Iran e loro alleati. A perdere è anche la politica regionale Israele che, nonostante sia sostenuto dalle diplomazie dell’Occidente, sarà costretto a ripensare modi e tempi del processo di normalizzazione. L’attacco poi costringe Riyadh a ricalibrare aspirazioni e obiettivi. La stabilità regionale ha suoi tempi e modalità. Non è così vicina come poteva apparire, non può essere costruita come somma di interessi delle parti, richiede un meticoloso lavoro di concertazione con altre potenze regionali e non può permettersi di trascurare gli attori locali—come Hamas.

Foto di copertina EPA/ABIR SULTAN / POOL

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