Diritti in campo: l’impegno politico nello sport Usa

“Vorrei che oggi potessimo parlare solo di calcio. Ma ovviamente la decisione [della Corte Suprema] riguardo a Roe vs. Wade ha la precedenza su tutto”. Visibilmente emozionata, la stella della nazionale di calcio femminile statunitense Megan Rapinoe apriva così la sua conferenza stampa prepartita del 24 giugno scorso, a poche ore di distanza dal pronunciamento della Corte suprema sul caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, con cui il riconoscimento o meno della legalità dell’aborto veniva lasciato alla decisione dei singoli Stati Usa, minacciando la salute e il diritto all’autodeterminazione di milioni di donne americane.

Nel suo intervento, Rapinoe, orgogliosamente lesbica e da sempre attiva in prima persona su tematiche di impegno politico, civile e sociale, evidenziava come il pronunciamento sia parte di un più ampio assalto ai diritti non solo delle donne, ma anche della comunità LGBTQIA+. A subirne le conseguenze, secondo Rapinoe, saranno in maniera sproporzionata le donne povere, afroamericane, immigrate e oggetto di violenze domestiche e stupri. La calciatrice lanciava anche un appassionato appello agli uomini affinché non siano complici, rompano il silenzio e prendano posizione sul tema: ricordando sempre che a essere colpita dalla decisione “è vostra moglie, è vostra sorella, è la vostra fidanzata, è la madre dei vostri bambini”.

Sport femminile e diritto di abortire

Quella di Rapinoe non è stata una voce isolata. Moltissime sportive e sportivi hanno espresso il loro sconcerto e la loro indignazione nei giorni successivi alla decisione della Corte suprema: tra loro, la leggenda del tennis statunitense Billie Jean King (vincitrice della celeberrima “battaglia dei sessi” nel 1973), la cestista canadese Natalie Achonwa e il pilota britannico Lewis Hamilton. Oltre ai singoli, a prendere posizione sono state intere squadre – come il club di calcio femminile NJ/NY Gotham FC – e associazioni di atlete, su tutte la Women’s National Basketball Players Association (WNBPA), che in un comunicato ufficiale ha sottolineato che i divieti di aborto da parte degli Stati “rafforzano le disuguaglianze economiche, sociali e politiche e potrebbero portare a tassi più elevati di mortalità materna”.

Il diritto all’autonomia decisionale e all’autodeterminazione del proprio corpo, d’altra parte, ha un’importanza cruciale nella carriera delle atlete di alto livello. La possibilità di gareggiare ai vertici è infatti limitata a una finestra temporale ristretta, che coincide in buona parte con gli anni di massima fertilità. Per poter portare avanti le proprie aspirazioni, le sportive devono essere libere di “decidere se e quando dedicare i propri corpi all’attività atletica, alla gravidanza, o a entrambe”. Avvalendosi di testimonianze dirette di atlete che hanno abortito nel corso della propria carriera, l’impatto della possibilità (o meno) di abortire sulla vita delle sportive americane è evidenziato in un amicus brief sottoscritto da oltre 500 atlete assieme alla WNBPA e all’associazione delle calciatrici statunitensi inoltrato alla Corte suprema nel settembre del 2021 nell’ambito di Dobbs v. Jackson.

Più in generale, l’amicus brief sottolinea l’importanza dello sport femminile sia per il benessere personale delle donne che lo praticano sia per la società nel suo complesso, dato che contribuisce a mettere in discussione gli stereotipi di genere e favorisce l’empowerment e la leadership femminili. Se il numero di ragazze che praticano atletica nelle high school americane è cresciuto da meno di mezzo milione nel 1971 a quasi 3,5 milioni nel 2018, ciò è stato possibile grazie a una serie di garanzie costituzionali – inclusa appunto la possibilità di abortire.

Una nuova era di attivismo sportivo a stelle e strisce

Come sottolineato da Rapinoe, la sentenza della Corte suprema non può essere separata da una serie di tensioni e conflitti fondamentali che attraversano gli Stati Uniti contemporanei. In questo senso, la massiccia mobilitazione a difesa della legalità dell’aborto va letta nel quadro di un crescente impegno per cause politiche e sociali da parte di una fetta consistente dello sport Usa.

Tra le battaglie più sentite dagli sportivi statunitensi spiccano quelle dell’antirazzismo e della lotta alle discriminazioni. A fare da apripista è stato il quarterback Colin Kaepernick, che nel corso della stagione 2016 della NFL ha deciso di inginocchiarsi al momento dell’inno nazionale per protestare contro le brutalità della polizia e l’ingiustizia razziale. Inizialmente, il gesto di Kaepernick è stato oggetto di forti critiche sui media e di attacchi diretti da parte dello stesso Donald Trump, secondo cui si tratterebbe di un’inammissibile mancanza di rispetto nei confronti della bandiera statunitense. Specialmente a seguito dell’assassinio di George Floyd, tuttavia, un numero sempre maggiore di sportivi di primo piano – da Naomi Osaka a Coco Gauff– ha preso posizione pubblicamente a sostegno del movimento ‘Black Lives Matter’, mentre la federazione calcistica statunitense ha abolito l’obbligo di stare in piedi durante l’inno nazionale, introdotto nel 2017 dopo che Rapinoe aveva iniziato a inginocchiarsi in solidarietà con Kaepernick.

La crescente sensibilità degli atleti statunitensi verso tematiche di impegno politico e sociale è fotografata anche da un recente sondaggio della Commissione atleti del Comitato olimpico internazionale. Dall’indagine è emerso che ben il 63 per cento degli atleti americani (a fronte del 42 per cento tra tutti gli atleti) ritiene che sia “appropriato” garantire ai partecipanti la possibilità di esprimere posizioni politiche o di altro genere a titolo individuale sui media durante le Olimpiadi; oltre la metà degli intervistati statunitensi, inoltre, si dice favorevole all’introduzione di opportunità per mandare un “messaggio unificato di inclusione e solidarietà” sul terreno di gioco.

A ulteriore testimonianza della diffusione di una cultura dell’impegno tra gli sportivi americani, la Commissione per la giustizia sociale e razziale del Team Usa ha espressamente chiesto al Comitato olimpico che venga “stabilita una policy di non punizione per le proteste e le manifestazioni mirate a promuovere iniziative per i diritti umani e la giustizia sociale” da parte degli atleti, sottolineando che “proteste e manifestazioni pacifiche sono un segno di leadership morale e possono servire come bussola etica nel mettere la dignità umana al centro dello sport globale”.

Questioni personali e politiche

Per molte sportive e sportivi americani, questioni come il diritto a decidere sul proprio corpo o la lotta alla discriminazione razziale hanno non solo una valenza etica non negoziabile, ma impattano anche direttamente sul proprio vissuto personale e sulle proprie carriere. In un contesto di sempre maggiore polarizzazione nel paese, è probabile che il numero di atleti statunitensi che faranno leva sulla propria esposizione mediatica per lanciare messaggi di impegno civile e politico sia destinato a crescere – con buona pace di quei commentatori, quasi sempre legati al mondo della destra conservatrice e populista, che vorrebbero che gli sportivi si limitassero a “star zitti e dribblare”.

Foto di copertina EPA/SHAWN THEW / POOL

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