Sahel: imparare dagli errori francesi in Mali

Il ritiro francese dal Mali è diventato inevitabile alla luce degli irragionevoli e disperati sforzi di Parigi di isolare l’intervento militare francese non solo dal contesto politico del Paese, ma anche dalle relazioni diplomatiche tra le due capitali.

Le tensioni politiche in Mali e l’impotenza di Barkhane

A questo proposito, è importante ricordare che, sebbene le tensioni tra le autorità francesi e quelle maliane abbiano raggiunto l’apice dopo il secondo colpo di Stato del mese maggio 2021, dall’inizio della crisi abbiamo assistito a un continuo accumularsi di divergenze politiche. In primo luogo relativamente al dibattito sul Mali settentrionale e successivamente su molti altri dossier: dall’attuazione dell’Accordo per la pace e la riconciliazione del 2015 da parte del governo maliano, all’apertura dei colloqui con Iyad Ag Ghali e Amadou Kouffa, leader di JNIM, affiliata di Al-Qaeda: dalla decisione di indire le elezioni a febbraio 2022 secondo le richieste dell’ECOWAS (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) al presunto arrivo della milizia Wagner nell’ambito del rinnovato partenariato tra Mali e Russia. È emersa progressivamente una profonda divergenza di prospettive strategiche tra le soluzioni favorite dai leader maliani da un lato e dalle autorità francesi dall’altro.

Tali disaccordi, insieme all’incapacità della forza Barkhane di convertire i suoi successi tattici in una vittoria strategica, hanno messo a nudo il fatto che la Francia e altri attori saheliani e internazionali non siano in grado di arginare l’inesorabile deterioramento della situazione della sicurezza nel Sahel, come evidenziato dal crescente radicamento locale dei movimenti jihadisti e dalla loro espansione nelle regioni settentrionali, ma anche dal pullulare di milizie e gruppi di autodifesa, dall’inasprimento delle tensioni tra alcune comunità, dal dilagare della criminalità e naturalmente dalla profonda crisi di governance, di cui i sintomi più visibili sono i colpi di stato in Mali, quello in Ciad e, più recentemente, quello in Burkina Faso (che paralizzano anche il G5/Sahel).

Molte incomprensioni sono state alimentate dall’insostenibile incongruenza della posizione diplomatica francese, che avalla il regime militare in Ciad, guidato dal figlio del defunto presidente Idriss Déby nell’ambito di una transizione dinastica incostituzionale, mentre condanna in modo sempre più deciso l’illegittimità dei leader maliani.

Il ritiro militare della Francia con l’abbandono del Mali da parte della forza Barkhane e quello dei partner europei impegnati sotto il comando francese nella Task Force Takuba lascerà chiaramente un vuoto di sicurezza, che peserà sul futuro della MINUSMA, ammesso che il mandato della forza delle Nazioni Unite venga rinnovato.

La chiusura delle basi militari di Gao, Gossi e Menaka sarà motivo di seria preoccupazione, soprattutto per il Niger. Questo ritiro potrebbe anche comportare delle conseguenze sulla crescente influenza del Cadre Stratégique Permanent (CSP), che gestisce i rapporti tra i gruppi armati firmatari dell’Accordo di Pace del 2015, sotto l’egida della Ong italiana Ara Pacis, ma anche sotto l’occhio di Bamako, scettico o addirittura sfavorevole.

A partire da marzo 2022, aspri combattimenti hanno contrapposto il CSP, e in particolare il MSA-D (Movimento per la Salvezza/Difesa dell’Asawad – Daoussahak) e i gruppi armati tuareg GATIA, ai combattenti dell’ISGS (Stato islamico nel Grande Sahara) nell’area di confine tra Mali e Niger, con tragiche scene di abusi sui civili a Tamalat e Inchinanane.

Il futuro del Mali

Più in generale, l’evoluzione della situazione in Mali dipenderà da tre fattori fondamentali: in primo luogo, dai risultati raggiunti dall’offensiva intrapresa dalle FAMA (Forze Armate Maliane) con l’appoggio dei loro alleati russi (la cui capacità di avere risultati operativi più convincenti rispetto ad altri partner esterni è ancora da dimostrare), mentre le Organizzazioni della Società Civile (OSC) internazionali accumulano accuse di continue violazioni e abusi dei diritti umani nel Mali centrale (in particolare nella città di Mourrah); in secondo luogo, dall’esito dei violenti scontri tra JNIM e ISGS, che combattono dal 2020; infine, dal futuro dei negoziati con i leader jihadisti.

Sebbene il disimpegno strategico dal Mali sia diventato inevitabile, la Francia afferma comunque la propria determinazione a rimanere impegnata nel Sahel, anche se in forma più leggera. D’ora innanzi, la presenza militare francese nel Sahel così come nei Paesi costieri dell’Africa occidentale, in un contesto di peggioramento della sicurezza dei Paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea (in particolare del Senegal e della Costa d’Avorio, che hanno basi militari francesi permanenti), dovrebbe essere più concentrata su supporto aereo, messa in sicurezza e intelligence, con un approccio quanto più leggero possibile. Tuttavia, oggi si tratta di sapere se e come la Francia, unitamente ai suoi partner europei, potrà continuare ad avere una presenza nel Sahel.

Le quattro lezioni delle missioni Barkhane e Takuba

In effetti, affinché un nuovo dispiegamento abbia più successo delle operazioni Barkhane e Takuba, la Francia e i suoi partner dovranno, in tutta sincerità, imparare la lezione dal loro precedente impegno di nove anni in Mali, prendendo seriamente in considerazione il “ritorno” di quattro elementi che hanno avuto tendenza a trascurare.

Il primo è il “ritorno dei contesti sociali“, così approfonditamente analizzata da Jean-Pierre Olivier de Sardan. Gli errori della Francia nel Sahel sono innegabilmente imputabili alla mancanza di conoscenza e comprensione delle dinamiche sociali e antropologiche che caratterizzano la regione.

Il secondo è il “ritorno della politica”. La gestione della crisi da parte della Francia è stata trattata essenzialmente come una questione operativa, in gran parte incarnata nella “guerra al terrore”; così facendo, il nemico è stato ridotto al suo modus operandi, negandogli lo status di attore politico. Di conseguenza, non si è contrapposta alcuna visione politica chiara ai concetti di Stato, società e morale propugnati dai gruppi jihadisti. Inoltre, i leader francesi sembrano aver sottovalutato la capacità dei loro partner saheliani di amplificare le voci dissenzienti non sistematicamente allineate con le posizioni di principio della Francia. Sia il presidente nigeriano Mohamed Bazoum, sia Paul-Henri Damiba, presidente del Burkina Faso da gennaio 2022, hanno manifestato la loro disponibilità ad avviare un dialogo con alcuni gruppi jihadisti, possibilità che la Francia continua a rifiutare. Infine, questo ritorno della politica si è manifestato attraverso l’irruzione sulla scena saheliana dell’esercito come attore fondamentalmente politico.

Il terzo è il “ritorno della geopolitica”. La Francia è riuscita a prevedere l’arrivo della Russia in Mali e ad avvertire dei pericoli di tale alleanza, diventata ancora più pericolosa dopo l’aggressione russa contro l’Ucraina. Tuttavia, tutti i Paesi del Sahel, e più in generale quelli dell’Africa occidentale, stanno dimostrando molto apertamente il loro desiderio di diversificare i loro partenariati internazionali. Il crescente riavvicinamento tra il Niger (pilastro del nuovo assetto della Francia nel Sahel) e la Turchia (paese con cui la Francia ha avuto degli scontri in altri contesti) incita le autorità francesi a ripensare la propria presenza in un contesto regionale su cui operano potenze considerate concorrenti o avversarie sullo scacchiere geopolitico globale.

Infine, il “ritorno dell’opinione pubblica”. Un parametro sempre più essenziale del contesto strategico saheliano, a lungo sottovalutato o addirittura ignorato dalle autorità francesi, è l’opinione pubblica nel Sahel, come dimostra l’attacco mortale al convoglio logistico “Voie Sacrée”. Anche se alcuni leader saheliani e dell’Africa occidentale continuano a chiedere sostegno, la presenza militare francese è vista dalle popolazioni locali sempre meno come una garanzia di sicurezza, e sempre più come un rischio o un peso non necessario. Vero è che un numero crescente di movimenti attivisti sta indubbiamente fomentando sentimenti antifrancesi, ma sarebbe un errore considerare l’animosità delle popolazioni nei confronti della politica estera francese nel Sahel come fondamentalmente manipolata dalle autorità politiche nazionaliste o da potenze esterne come la Russia. Le popolazioni del Sahel ora oscillano tra la disillusione nei confronti della democrazia e l’esasperazione per la sicurezza: una rabbia così profonda può facilmente degenerare in reazioni spontanee e imprevedibili, che potrebbero ostacolare e mettere in pericolo futuri dispiegamenti francesi e stranieri nella regione e non solo.

La decisione di lanciare l’intervento militare Serval in Mali e poi di portare avanti l’intervento nell’ambito dell’operazione Barkhane con un mandato esteso a cinque Paesi del Sahel è stata presa dal presidente François Hollande. Successivamente, Emmanuel Macron ha deciso di proseguire e approfondire l’impegno francese nel Sahel, ma nessuno dei due ha saputo evitare un numero cospicuo di errori, sia sotto l’aspetto della comunicazione strategica sia sotto quello della visione politica. La crisi del Sahel continuerà a essere indubbiamente una delle sfide più delicate da affrontare nell’ambito del prossimo mandato presidenziale sul fronte della politica estera.

Foto di copertina EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

Ultime pubblicazioni