Riformare l’Europa della difesa

La guerra in Ucraina prosegue da più di tredici mesi e, per ora, non se ne vede la fine. In ogni caso già ora ha impartito un’altra lezione dopo quella, la più importante, che i conflitti anche sul Vecchio Continente non sono un ricordo del passato e che lo stesso vale per il principio del rispetto dei confini e della popolazione civile.

La deterrenza europea nel nuovo scenario strategico

Continua a trovare conferma il detto latino “Si vis pacem para bellum” che nell’epoca moderna è alla base della politica della deterrenza: bisogna mantenere adeguate capacità militari per dissuadere ogni potenziale attacco, ancor prima che per contrastarlo.

La disponibilità di armi di distruzione di massa, in primo luogo quelle nucleari, ha spostato l’attenzione sulla deterrenza nucleare, lasciando sotto traccia la necessità di una deterrenza anche convenzionale perché in ogni momento di crisi l’uso della forza deve essere proporzionato e deve esserci un ampio margine per incrementarlo a livello quantitativo, qualitativo e temporale.

Questo comporta un certo sacrificio finanziario perché il ritorno degli investimenti in difesa e sicurezza è inversamente proporzionale ai risultati conseguiti. Il migliore risultato è dato dal fatto che non debbano essere concretamente utilizzati. Ovviamente lo “spreco” è fortemente limitato dal forte contributo all’innovazione tecnologica e all’impiego di tecnici qualificati che gli equipaggiamenti militari, sempre più sofisticati, richiedono. Ma questo impatto positivo si riduce quando si passa ai prodotti di consumo (in particolare il munizionamento) e alle parti di ricambio (comprese le attività di supporto logistico e manutenzione).

I trentuno anni trascorsi dalla fine dell’Urss hanno spinto i paesi europei a dimenticare i quarantaquattro precedenti, passando, con rare eccezioni, da un’economia di guerra (seppur “fredda”) ad un’economia di pace. A parte le capacità di difesa anti-aeree e, parzialmente, anti-missile (per lo meno sul breve e medio raggio), quelle navali e quelle satellitari, il resto delle capacità militari è stato apertamente trascurato. Un’ulteriore spinta in questa direzione è venuta dal cambiamento dello scenario strategico, con la concentrazione dell’attenzione sulla minaccia da parte di alcuni stati limitrofi o di alcune aree di instabilità lontane dove si sono dovute contrastare forze armate e gruppi dalle limitate capacità. L’industria della difesa europea ha dovuto, quindi, dimensionarsi su una domanda ridotta e selettiva. Nel frattempo si è puntato molto sull’innovazione tecnologica, più che sulle capacità produttive. L’obiettivo è stato, fino ad ora, quello di esercitare la deterrenza quasi esclusivamente attraverso il vantaggio tecnologico.

Oggi molti nodi stanno venendo al pettine, fra cui la difficoltà di alimentare la difesa dell’Ucraina con un adeguato numero di sistemi di difesa area (in particolare contro i droni e i missili a corto e medio raggio) e di difesa anti-carri e anti-artiglieria, tutti basati su una sviluppata capacità di individuare rapidamente gli obiettivi e su una forte mobilità per garantirne la sopravvivenza. Questa stessa esigenza coinvolge i paesi europei sia perché devono essere ripianate le scorte (ridotte dalle forniture all’Ucraina), sia perché vanno rapidamente incrementate a fronte del nuovo scenario strategico. Tutto questo in un contesto in cui siamo alle porte di un salto generazionale che coinvolgerà molti sistemi d’arma e che sta assorbendo le capacità di sviluppo delle imprese del settore aerospazio, sicurezza e difesa.

Vi è, quindi, un forte squilibrio in Europa fra una forte domanda e una limitata offerta, col rischio che aumentino gli acquisti extra-europei rafforzando i nostri concorrenti e la diversità degli equipaggiamenti rendendo meno efficace la difesa collettiva, con un impatto fortemente negativo sull’auspicata autonomia tecnologica e operativa europea.

Una strategia europea per rafforzare la sua base industriale militare

Per contrastare questo rischio serve un cambio di passo nella costruzione di una vera Europa della difesa:

1 Vi è un forte rischio di saturare le esigenze odierne con gli equipaggiamenti attualmente disponibili, mettendo una pericolosa ipoteca sulle nuove generazioni oggi all’inizio del loro sviluppo (che si realizzerà in parte anche con crescenti finanziamenti dell’Unione Europea), ma che non saranno disponibili prima dell’inizio del nuovo decennio.

Nel contesto odierno bisogna puntare ad accordi bi o multilaterali basati su una maggiore interdipendenza delle capacità militari fra i maggiori paesi, impedendo una corsa “nazionale” ad acquisire quanto necessario (inevitabilmente dagli Stati Uniti o da altri nuovi produttori); per i maggiori paesi europei è ora di darsi reciprocamente una mano per salvaguardare insieme i propri interessi e quelli europei.

2 I sistemi di difesa avanzati richiedono la disponibilità di centinaia di sottosistemi e apparati, a loro volta realizzati integrando migliaia di componenti, spesso sofisticati. Tutto questo richiede tecnici specializzati, oltre che impianti adeguati. Senza di loro è impossibile accelerare i ritmi della produzione, ma per formarli ci vuole molto tempo, sia che abbiano appena finito gli studi, sia che vengano reclutati sul mercato civile.

Bisognerà rendere molto più attrattivo il loro trasferimento o inserimento, tenendo conto dei vincoli giuridici e della minore stabilità che caratterizzano l’attività nel settore militare, oltre che, purtroppo, dell’aspetto reputazionale provocato dall’esasperata opposizione nel campo della finanza sostenibile.

3 La velocità dell’innovazione dovrebbe spingere a procedere con piccoli lotti anche per la stessa generazione dei mezzi da acquistare, puntando su architetture aperte (quindi compatibili) e margini di cambiamento (dimensioni, peso, potenza assorbita, compatibilità elettromagnetiche) in modo che le innovazioni possano essere introdotte frequentemente per mantenere la supremazia tecnologica.

Servirà maggiore flessibilità e velocità nei programmi di acquisizione, rendendo più flessibile e veloci le procedure contrattuali e le variazioni dei contratti iniziali, in modo da poterli adattare ad uno scenario strategico molto più instabile che nel passato.

4 Fino ad ora i paesi europei hanno prestato scarsa attenzione alla sicurezza degli approvvigionamenti. La libera circolazione dei componenti all’interno del mercato europeo e la progressiva globalizzazione del mercato mondiale hanno fatto perdere di vista la necessità di monitorare e, in alcuni casi, intervenire per salvaguardare alcune subforniture essenziali. La crisi economica e quella del commercio internazionale provocate dalla pandemia, prima, e l’aumento della domanda di equipaggiamenti militari, poi, hanno reso molto più complicato il reperimento di parti e componenti sia per garantire il mantenimento in efficienza dei mezzi in servizio sia per costruirne di nuovi e, per di più, velocemente.

Bisognerà realizzare più velocemente e rafforzare il previsto sistema europeo di monitoraggio delle capacità tecnologiche e industriali strategiche disponibili a livello continentale, in modo da tutelarle e coprire le carenze che presentano maggiori rischi.

5. Troppi paesi europei non si sono veramente impegnati nell’ultimo decennio nel rispettare l’impegno ad investire il 2% del pil nella difesa entro dieci anni, come concordato nel Vertice Nato di Cardiff nel 2014 (proprio dopo l’annessione della Crimea da parte russa) e poi ribadito costantemente anche in sede europea. Fra questi anche il nostro paese che già lo scorso anno ha unilateralmente deciso che la scadenza era per noi posticipata al 2028. Ovviamente questo indicatore non esprime compiutamente l’effettivo impegno nel campo della difesa e anche altri andrebbero considerati: la quota degli investimenti e di quelle di funzionamento, le capacità operative, l’addestramento, l’organizzazione delle forze, la partecipazione alle missioni internazionali, ecc. Ma senza un adeguato finanziamento alla fine tutto questo non basta, anche perché non è sostenibile nel tempo.

Strategie comuni per il futuro

Dopo il 24 febbraio molti paesi europei hanno deciso di cominciare a recuperare il ritardo, ma, come un corpo denutrito non può tornare in poco tempo al peso ideale (rischia, anzi, di andare incontro a seri problemi), così ingenti stanziamenti per la difesa senza una meditata pianificazione e senza un coordinamento europeo non possono bastare. C’è, inoltre, il rischio di una crescita disomogenea perché l’eccessivo indebitamento di alcuni e la crisi economica pre e post-pandemica non possono esonerarli dal rispettare il Patto di stabilità.

Di qui la proposta, già avanzata in passato, ma oggi tornata attuale, di escludere dai parametri del Patto una parte delle spese per la difesa. Se la difesa europea è un superiore interesse comune, dovrebbero essere esclusi, per principio, tutti gli investimenti volti a sanare attraverso programmi congiunti le carenze militari europee individuate nel costante monitoraggio svolto dall’EDA e dall’EUMC e EUMS. Fra questi dovrebbero esserci tutti quelli intergovernativi e quelli che deriveranno dai programmi di ricerca e sviluppo co-finanziati dall’Unione Europea. Insieme, per gli stessi programmi, dovrebbe essere garantita la loro esenzione iva in tutti gli Stati membri.

Uno dei primi obiettivi deve, quindi, essere quello di rafforzare le capacità produttive delle imprese europee attraverso il co-finanziamento degli acquisti con fondi europei, gli incentivi fiscali e finanziari, le facilitazioni normative e le semplificazioni procedurali, in altri termini rafforzando l’integrazione del mercato europeo della difesa e rendendolo più attraente per gli investitori. In quest’ottica molto dipenderà, oltre che dalle istituzioni europee, dai maggiori Stati membri e dalla loro disponibilità e volontà di fare scelte comuni e favorire le collaborazioni intra-europee anziché tentare, ancora una volta, di tutelare esclusivamente gli interessi nazionali. Servono strategie che non si limitino sempre e solo all’oggi, ma guardino anche al domani.

Foto di copertina EPA/Javier Cebollada

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