Perché la transizione energetica europea va accelerata

In risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, i Paesi occidentali hanno imposto sanzioni finanziarie a Mosca e l’embargo sulle esportazioni di petrolio. Per ritorsione, la Russia ha tagliato le sue massicce forniture di gas all’Europa, minacciando di lasciarla al freddo per l’inverno. La prospettiva di una catastrofica crisi energetica nel vecchio continente si è però indebolita grazie alle misure emergenziali messe in piedi dai governi e dalle istituzioni europee, soluzioni favorite anche da temperature eccezionalmente miti durante gran parte dell’autunno e dell’inverno.

Occorre però essere molto cauti: l’Europa non è affatto fuori dal pericolo creato dalla Russia ed il quadro per il prossimo inverno rimane assai incerto. Non potendo contare sul gas russo e in competizione per il gas naturale liquefatto (gnl) con la Cina appena uscita dalla sua politica zero-covid, il rischio per la sicurezza energetica europea è concreto. L’Ue deve per questo prolungare le misure di contenimento della domanda di gas oltre che, naturalmente, accelerare al massimo la transizione energetica.

I nuovi flussi dell’energia

Dal divorzio euro-russo sta intanto emergendo una nuova mappa dei flussi dell’energia. In primis, è evidente il cambio radicale della posizione russa nei mercati energetici globali e il riorientamento per molti paesi dei propri legami commerciali su logiche securitarie. Con lo scoppio della guerra i paesi europei hanno stretto alleanze con nuovi partner energetici e ne hanno consolidate di tradizionali. I

l legame con Stati Uniti, Azerbaijan, Qatar, Norvegia, Algeria e molti altri paesi africani si è rafforzato. Contemporaneamente, sono sorte opportunità e rischi, sia politici (tra i partner c’è chi è più coerente con gli interessi europei e chi meno, chi è istituzionalmente più solido e chi meno) che ambientali (il livello di attenzione per le politiche climatiche e la coerenza con la visione verde dell’Europa non è uguale per tutti). Mosca nel frattempo sta cercando di riorientare parte dei volumi precedentemente destinati all’Europa verso l’Asia, ma permangono strozzature infrastrutturali, amministrative ed economiche che potrebbero rallentare questa volontà.

Povertà energetica e disuguaglianze

Le conseguenze energetiche della guerra hanno inoltre esacerbato le disuguaglianze sociali all’interno dei paesi. L’aumento dei prezzi dell’energia ha contribuito a un’inflazione elevata e l’aumento dei prezzi del carburante si è riversato sui mercati alimentari, spingendo molte famiglie vulnerabili verso la povertà, costringendo alcune fabbriche a ridurre la produzione, e rallentando la crescita economica di molti paesi.

Inoltre, la guerra ha acuito il divario tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Da una parte i Paesi industrializzati, intenzionati ad accelerare la propria transizione energetica (si pensi alla strategia RepowerEU presentata dalla Commissione, o al dibattuto Inflaction Reduction Act statunitense). Dall’altra le economie emergenti o in via di sviluppo, che in molti casi avevano riservato al gas un ruolo importante per ridurre l’uso del più inquinante carbone e che adesso potrebbero dover frenare i loro piani.

Dallo scoppio della guerra infatti la diversione dei flussi di gnl dai Paesi meno industrializzati verso l’Europa ha acuito la povertà energetica in molti paesi emergenti e in via di sviluppo (si pensi al Bangladesh, al Pakistan o allo Sri Lanka). Data la ridotta capacità di gnl sbloccabile nel breve termine, la tensione rischia di acutizzarsi ancora di più nei prossimi mesi, aggravando la povertà energetica e indebolendo la strategia climatica in molti di questi paesi. La corsa europea al gas alternativo in questo anno di guerra può anche per questo apparire incoerente con gli appelli per una più rapida decarbonizzazione a livello globale, messaggio di cui l’Ue si fa – giustamente – portavoce.

Un trend simile si nota negli squilibri degli investimenti in energia pulita – che continuano a essere indirizzati per la stragrande maggioranza verso paesi industrializzati (e verso la Cina). Le promesse di finanza climatica avvenute in passato da parte dei paesi industrializzati sono inoltre sempre state disattese. È dunque assolutamente necessario ricostruire la fiducia tra Paesi mettendo a disposizione di quelli in via di sviluppo più denaro per supportare un accesso all’energia più ampio e più pulito possibile. In questi due anni molto delicati che ci aspettano i paesi industrializzati, a partire dall’Ue, dovranno provare ad affrontare in maniera più ordinata queste dinamiche.

Foto di copertina EPA/STEPHANIE LECOCQ

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