A un certo punto della sua lunga vita, George Bernard Shaw disse che “la democrazia è quello strumento che ci garantisce la possibilità di non essere governati meglio di come ci meritiamo”. Per una buona parte dell’elettorato, e soprattutto per la metà degli aventi diritto che non si è presentata alle urne per rinnovare il Parlamento europeo, il pensiero del sapido letterato irlandese è un irridente rimprovero. Si poteva fare di più, e si poteva fare meglio, mentre chi ha scelto di andare a mettere la scheda nell’urna ha compiuto la missione che sognava e/o quella che gli è riuscita.
La paura e il rifiuto della politica tradizionale hanno condotto a destra del centro tre elettori su dieci, gonfiando un’onda nazionalista nera con decine di sfumature di grigio che non ha tuttavia assunto la dimensione della marea e che, per i prossimi cinque anni, non avrà possibilità di incidere davvero sui programmi scritti a Ventisette. L’altro 70% ha confermato di voler proseguire sulla strada dell’integrazione, invocando un repentino cambiamento che renda l’Unione più efficace e rapida.
Con due guerre alle porte, l’economia debole e le transizioni da affrontare, la sensazione è che non ci sia tempo da sprecare. La minaccia esistenziale che il presidente francese Emmanuel Macron ha paventato per il patto a Ventisette, ripensata dopo questo lungo e teso duello elettorale di inizio giugno, è più concreta di quanto i numeri permettano di immaginare.
La maggioranza in Parlamento non cambia, la destra rimane debole
Con circa 400 seggi su 720 in palio nell’emiciclo di Strasburgo, le tre famiglie tradizionali – popolari, socialisti e liberali – possono dire di aver vinto perché non sono stati battuti. L’intesa dei conservatori Ecr guidata da Giorgia Meloni ne ha ottenuti 73 e nell’ipotesi non semplice che volesse unirsi alla destra-destra di Identità e Democrazia arriverebbe a 131. Pochi, per fare davvero male all’Europa com’è, anche quando dovesse aggiungersi Viktor Orbàn (10 seggi) e una parte dei senza-famiglia “non iscritti” (i potenzialmente interessati all’affare sono al massimo una trentina). In uno scontro politico tradizionale, la destra non ha possibilità di spuntarla, non in questa legislatura. L’alternativa è cercare di cambiare l’Europa da dentro, alzando il prezzo delle intese sui grandi dossier e sulle nomine. “Fare a Bruxelles quello che abbiamo fatto a Roma”, come auspicato dalla premier italiana è comunque un’impresa da rimandare a un futuro non prossimo. L’Unione delle destre con il centro non risulta al momento fra le soluzioni realizzabili.
L’analisi del dettaglio rivela che i popolari non hanno perso attrattiva, anzi. La famiglia di Manfred Weber ha guadagnato 10 deputati (totale 186), sfruttando il ritorno della causa scudocrociata in Germania e Spagna. “Siamo ancora il più grande gruppo all’Europarlamento – ha festeggiato il bavarese -, abbiamo vinto le elezioni e tra i principali partiti siamo gli unici a crescere: la nostra candidata è Ursula von der Leyen che ha fatto una grande campagna elettorale”. Di qui è partito l’invito a socialisti e liberali perché si continui la collaborazione a tre. Immediata la risposta S&D, con il lussemburghese Nicolas Schmit rapido nel tendere la mano al leader popolare dopo la frenatina del suo gruppo (135 eletti, quattro in meno). I liberali di Renew, anche alla luce della debacle di Macron, finiranno per seguire senza fare troppe storie. Mentre non è esclusa una maggioranza allargata almeno ai Verdi che, dopo aver perso 18 seggi (sono scesi a 53 deputati), potrebbero barattare più voce in capitolo in cambio di un contributo a consolidare la maggioranza convintamente pro-Europa.
Nonostante la debolezza franco-tedesca, la Von der Leyen è sicura
Il Consiglio Ue vuole stringere i tempi, provare a decidere subito. Il programma prevede la designazione a opera dei Capi di Stato e di governo dei vertici di Commissione europea e Consiglio, nonché dell’alto rappresentante per la politica estera, scelte che si incastrano con la presidenza dell’Europarlamento attesa per metà luglio. L’esito del rompicapo dipende da alchimie basate su famiglia politica, paese, genere, stato piccolo e grande, Nord-Sud, Est-Ovest.
Incassata l’affermazione popolare, Von der Leyen ha annunciato di sentirsi in corsa più che mai per restare alla Commissione Ue. Capita però che i Repubblicani francesi (sei deputati) non siano convinti e che ci siano numerosi potenziali franchi tiratori in una partita che si decide a scrutinio segreto. La trama non è scontata, sebbene il clima post-elettorale appaia meno virulento del previsto. Molto dipende da quello che riusciranno a combinare i due sconfitti d’alto bordo, Macron e Scholz.
L’asse fra Berlino e Parigi su cui gira da sempre il cantiere europeista sta scricchiolando. Il francese ha giocato la carta delle elezioni anticipate, mossa ardita con cui tenta di disinnescare Marine Le Pen almeno per tre anni. Il secondo ha perso male e deve dimostrare di non essere stordito dalla pressione cristiano democratica. Il patto con i popolari gli consentirebbe di difendere il proprio ruolo e di favorire la designazione di un socialista al Consiglio (il portoghese Costa ma potrebbe avere qualche chance anche Enrico Letta). Più complesso l’intreccio per gli Esteri, ai quali ambiva la liberale estone Kaja Kallas, ora considerata troppo antirussa: fra le opzioni più quotate, il premier belga uscente Alexander De Croo, pure liberale. Il manuale Cencelli dell’Unione consiglierebbe di scegliere un nome dell’Europa centro-orientale.
In sintesi, Ursula riparte con l’appoggio delle tre grandi famiglie e una dozzina abbondante di leader popolari in Consiglio. Francia e Germania seguiranno. Alla fine, salvo colpi di scena, ci sarà anche l’Italia: Giorgia Meloni non può permettersi di votare contro il candidato dei più se vuole un buon incarico per il suo commissario e scongiurando la graticola a Strasburgo. Se la situazione per la tedesca dovesse complicarsi, è pronta a scendere in campo la popolare maltese Roberta Metsola.
La cavalcata del Fronte nazionale ha scatenato reazioni a catena in Francia. Macron ha sciolto il Parlamento e indetto elezioni per fine mese, con l’obiettivo di rimettere insieme centro e sinistra per isolare nuovamente Marine Le Pen, oppure costringere la destra a un governo di coabitazione nella Republique del presidente. Differente il caso dei socialisti di Scholz, battuti dai popolari di Merz e anche dagli estremisti di Alternative für Deutschland che ha sfondato fra i giovani grazie a TikTok e simili. Urge ripensamento a Berlino, sebbene il destino dell’Spd, il partito più antico della Germania, sembri segnato. Interessante il duello socialisti-popolari in Spagna, col governo di Sanchez un poco più fragile e la prospettiva di dover lavorare in sintonia a Bruxelles e a Strasburgo. Solido il risultato per i civici di Donald Tusk in Polonia, mentre in Ungheria il granitico Orbàn arretra per la prima volta e ha un rivale che è un ex di Fidesz, Peter Magyar, capace di prendere un voto su tre: qualcosa è cambiato.
L’Europa attraversa un tempo di crisi multiple. La lista delle decisioni non più rinviabili per i Ventisette traccia sei fronti d’attacco. Uno: la riforma dell’Unione, cominciando dalla limitazione del voto all’unanimità, essenziale nella prospettiva di un allargamento ulteriore verso i Balcani e (forse) l’Ucraina. Due: rafforzare la difesa comune sotto l’ombrello Nato, con l’effetto di risparmiare denari e aumentare la credibilità internazionale dei Ventisette. Tre: darsi finalmente una politica estera e commerciale chiara, in modo da non finire schiacciati da Russia, Cina e India, nonché dagli Stati Uniti (soprattutto se vince Trump). Quattro: cambiare le ricette per l’economica attraverso l’utilizzo di fondi comuni a sostegno delle strategie di sviluppo, con una cassa comune in stile Next Generation Eu. Cinque: affrontare la transizione ecologica senza fondamentalismi, con le risorse giuste e un occhio alle imprese. Sei: trovare una soluzione comune per i migranti, per accogliere chi può essere accolto nell’ambito della legge e del rispetto dei diritti, rimpatriare chi non ha facoltà di restare e utilizzare chi può lavorare.
In conclusione, gli assetti e i pesi politici sono in buona sostanza confermati. Sarebbe tuttavia da sprovveduti ritenere che il nostro mondo sia come prima. L’astensionismo segnala una grave frattura fra i cittadini e la classe dirigente, frutto di errori di comunicazione e scelte prese lontano dalla gente: la cura di questa emorragia di partecipazione deve essere prioritaria. Il voto a destra e ai partiti estremisti segnala, in particolare in Germania e Francia, l’incapacità di sanare le diseguaglianze che la crisi economica, poi finanziaria e pandemica, ha ampliato: si rischia un “momento Trump” e un ritorno all’uomo forte che non promettono nulla di buono. Mentre la qualità del Welfare non è più garantita, e molte capitali faticano ad accettare la necessità di un bilancio condiviso contro le crisi comuni, lo scenario geopolitico sobbalza furiosamente. Abbiamo un doppio conflitto sotto casa, l’America che va al voto, la Cina e l’India che sognano di conquistare il pianeta, l’Africa da curare per non perderla, e via con le incognite. In questo l’Europa è un attore marginale, ruolo che non può permettersi e che dovrebbe avere la forza di archiviare. I prossimi cinque anni devono votarsi a una consapevolezza concreta. L’alternativa è la morte paventata da Macron, un decesso lento e inesorabile. O anche peggio.