La parità di genere vista dall’Arabia Saudita

La voce di donne e femministe militanti è uno dei fili conduttori degli avvenimenti che hanno toccato il Medio Oriente nell’ultimo anno: dalle proteste in Iran, dopo la morte di Mahsa Amini, ai tentativi di resistenza delle donne afghane contro i talebani, nondimeno l’attivismo transnazionale contro l’imposizione normativa della “tutela maschile’’, con l’attivismo delle diaspore. Sebbene in Medio Oriente siano stati compiuti progressi significativi, l’orizzonte della parità di genere è ancora lontano: gli indici del divario di genere segnano nell’emancipazione politica nella regione pari al 14% e mostrano che ci vorrebbero altri 115 anni affinché la regione MENA raggiunga la parità di genere.

Il futuro economico, sociale e politico dei Paesi mediorientali dovrà fare i conti con la questione femminile, configurandosi così, in larga misura, tra chi cercherà di resistere all’arco del cambiamento storico e di mantenere la sottomissione delle donne e stati che invece sceglieranno di potenziare, integrare e coinvolgere le donne in società più aperte e liberali. Ad oggi, quindici Paesi della regione MENA applicano ancora leggi sullo status personale o sulla famiglia che impongono alle donne di “obbedire’’ al loro tutore maschile e  negano la libertà di movimento.

La ‘visione liberale’ di Mohammed Bin Salman

Tra i paesi del Medio Oriente risulta sorprendente, e a più riprese invocata, la “svolta liberale’’ intrapresa dal principe saudita Mohammed bin Salman (MbS). Nel 2017, in seguito all’annuncio di riforme sociali ed economiche verso un ‘Islam moderato’, vennero promulgate nuove leggi per l’applicazione della Sharia, contenenti disposizioni per la condizione femminile. Sebbene nel Paese sia ancora in vigore il “sistema del guardiano” (in arabo welayah), per cui le donne sono dipendenti dal wali, ovvero un tutore “protettore”, spesso un padre, un coniuge, o più in generale un uomo, le nuove riforme hanno creato un’apertura.

Le donne saudite possono ora usufruire di cinema, stadi, entrare nelle forze armate, richiedere passaporti, aprire attività senza il consenso maschile, e guidare con la patente senza la presenza di un tutore maschio,  delineando così una nuova concezione del patto sociale.

Un patto sociale liberale ma “autoritario”

A queste riforme sociali più liberali, verso una maggiore emancipazione della donna, si contrappongono, però, arresti e misure di repressione nei confronti di molte attiviste, che fanno pensare ad una una ristrutturazione orchestrata della reputazione di MbS, piuttosto che ad un passo verso l’uguaglianza di genere. Come evidenziato da Human Rights Watch, il regime continua a detenere le attiviste che, prima delle riforme, si erano battute per la causa femminista, rafforzando così la propria capacità di controllo sulla società civile e limitando il monitoraggio indipendente del grado di implementazione delle riforme.

Uno dei casi di repressione più recenti è quello di Manahel al-Otaibi, attivista per i diritti delle donne, detenuta dal novembre 2022 e accusate di diffamare il regno. Coloro che sono state scarcerate, come  Loujain Al-Hathloul, Nassima al-Sadah e Samar Badawi, rimangono vittime di forti restrizioni, in particolare divieti di movimento e di lasciare il Paese.

Inoltre, nel marzo 2022, il governo di MbS, codificando per la prima volta le pratiche del sistema del guardiano a cui sono sottoposte le donne, ha approvato la legge sullo status della persona, definendola  “completa” e “progressista”, nonostante contenga disposizioni discriminatorie nei confronti delle donne in materia di matrimonio, divorzio e decisioni sui figli.

Il doppio standard occidentale

Emerge ad uno sguardo più attento sullo stato della società civile, e in sintonia con la prospettiva delineata dal piano “Saudi Vision 2030“, che l’intento saudita possa essere un tentativo di dar parvenza di accettare “valori occidentali” e di voler rinsaldare la legittimità internazionale del regime. Nella più complessa ottica dell’integrazione internazionale del potenziamento della competitività dell’economia, MbS è alla ricerca di progressi su un tripode di commercio, tecnologia e turismo.

Nel frattempo, l’Unione Europea sta valutando positivamente gli sforzi intrapresi dal Regno saudita, avviando un dialogo incentrato sui diritti umani. Un’occasione recente in tal senso è stata l’incontro tenutosi a fine luglio di quest’anno a Bruxelles. Gli stessi Paesi europei che durante questi dialoghi fanno raccomandazioni, incitano e suggeriscono al governo saudita di firmare convenzioni internazionali sui diritti civili e politici, di abolire la polizia religiosa e promuovere misure che tutelino i diritti delle donne, stanno anche vendendo armi utilizzate nella guerra in Yemen.

Dopo l’assassinio del giornalista Khashoggi, Berlino ha risposto con un bando alla vendita di armi all’Arabia Saudita e il Regno Unito, con una sentenza del 2019, ha fermato l’esportazione di armi verso il Paese. Gli altri tre Paesi (Italia, Francia e Spagna) hanno continuato su questa linea, nonostante un recente rapporto delle Nazioni Unite affermi che i Paesi che vendono armi a Riyad potrebbero essere complici dei crimini di guerra nello Yemen.

Questo articolo, a cura di Maddalena Fabbi e Ilona Zabrytska, è stato scritto in collaborazione da Orizzonti Politici e Affari Internazionali, la rivista di IAI, nell’ambito del progetto sulle crisi umanitarie nel mondo.

Foto di copertina EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

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