Oltre il bluff: dentro la macchina tariffaria trumpiana

Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump ha inaugurato una nuova fase basata sul protezionismo. Fedele alla dottrina dell’America First, la Casa Bianca ha rilanciato l’uso delle tariffe doganali come strumento di politica estera ed economica. In pochi mesi, gli Stati Uniti hanno imposto dazi su centinaia di miliardi di dollari di beni importati, colpendo tanto i rivali sistemici come la Cina quanto gli alleati storici come l’Unione Europea e il Regno Unito. Un ritorno alle politiche di un secolo fa che, la Storia insegna, rischiano di creare più danni che altro.

La nuova dottrina tariffaria statunitense

Il 2 aprile 2025, il presidente Trump ha annunciato l’imposizione di dazi generalizzati su tutte le importazioni, con un’aliquota base del 10 per cento e incrementi fino al 50 per cento per alcuni partner. La misura, battezzata Liberation Day Tariffs, ha interessato 180 Paesi ed è stata giustificata sulla base del principio dei reciprocal tariffs: gli Stati Uniti imporranno dazi proporzionati a quelli “applicati” dagli altri Paesi sui beni americani, secondo una fantasiosa formula che considera il disavanzo commerciale con il Paese interessato come un dazio applicato alle importazioni da quest’ultimo. Occorre qui fare una prima precisazione: a differenza di quanto sostenuto da Trump, quindi, non sono dazi reciproci, ma dazi punitivi.

Tra le entità più colpite: la Cina (34 per cento), l’Unione Europea (20 per cento), il Giappone (24 per cento). Solo la Russia è stata esentata. Gli effetti sono stati immediati: i mercati finanziari hanno reagito in maniera molto negativa, con un crollo che nemmeno Trump ha potuto ignorare.

La risposta della Cina: escalation e tregua temporanea

La Repubblica Popolare Cinese ha reagito in modo deciso. A partire dal 10 aprile, Pechino ha aumentato i dazi su un ampio paniere di prodotti statunitensi, portando l’aliquota media dal 34 per cento fino all’84 per cento. Tra i settori più colpiti: agroalimentare, tecnologia, automotive.

Oltre ai dazi, la Cina ha attivato misure non tariffarie, limitando l’esportazione di terre rare e inserendo oltre quaranta aziende americane nella lista delle “entità inaffidabili”. La tensione ha portato a un’escalation che ha rischiato di sfociare in una vera guerra commerciale. Il 12 maggio, però, grazie a una mediazione dell’Organizzazione mondiale del commercio a Ginevra, le due potenze hanno raggiunto un accordo temporaneo: sospensione dei dazi per novanta giorni e istituzione di un tavolo bilaterale per la rinegoziazione delle relazioni economiche.

Tuttavia, l’accordo sembra poco più che un cessate il fuoco simbolico. Le tariffe su settori strategici restano, e il campo di gioco è tutt’altro che stabilizzato. Pechino ha concesso molto meno rispetto al precedente accordo firmato nel 2020 e non ha dato alcun segnale di voler allinearsi alle richieste americane in materia di sovvenzioni industriali, tutela della proprietà intellettuale o accesso al mercato.

A conferma della distanza tra retorica diplomatica e realtà, il 18 maggio la Cina ha introdotto nuovi dazi antidumping fino al 74,9 per cento su alcune materie plastiche importate da Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e Taiwan. Si tratta di copolimeri di poliossimetilene, materiali utilizzati nell’automotive e nell’elettronica in sostituzione dei metalli, considerati strategici in numerose filiere. Secondo Pechino, un’indagine avviata nel 2024 ha confermato pratiche di dumping da parte di Washington e Bruxelles, giustificando così l’introduzione delle tariffe. La notizia è stata confermata da Reuters, che ha riportato anche le differenze tra i Paesi colpiti: massimo impatto per gli Stati Uniti, aliquote più contenute per Taiwan e alcune imprese giapponesi.

Le contromisure dell’Unione Europea

Anche Bruxelles ha reagito all’offensiva statunitense. In aprile, la Commissione Europea ha varato un pacchetto di dazi compensativi tra il 10%e il 25%su prodotti iconici americani: jeans, motociclette, bourbon, carne bovina. In parallelo, sono state rafforzate le misure a tutela degli standard ambientali e sanitari europei contro l’ingresso di merci statunitensi non conformi.

Il 10 maggio, tuttavia, l’UE ha bloccato temporaneamente le sue contromisure, in seguito alla decisione americana di sospendere i dazi nei confronti di alcuni partner strategici. Questa tregua potrebbe essere solo temporanea, in attesa di sviluppi più strutturali, ma la sensazione a Bruxelles è che si tratti di una mossa tattica americana per dividere il fronte multilaterale e aumentare la pressione su singoli Stati membri.

L’accordo selettivo con il Regno Unito

In un contesto di tensione diffusa, l’amministrazione Trump ha portato a termine un’intesa commerciale con il Regno Unito. L’8 maggio 2025 è stato annunciato lo US-UK Economic Prosperity Deal, che prevede l’accesso preferenziale per le esportazioni britanniche di auto, acciaio e prodotti farmaceutici, le concessioni britanniche su carne bovina ed etanolo americani e la creazione di un meccanismo di consultazione permanente sulle barriere non tariffarie.

Nonostante il tono celebrativo, l’accordo è stato accolto con scetticismo sia a Londra che a Bruxelles, mentre la Cina ha criticato apertamente l’intesa, accusando Washington di voler sabotare le relazioni economiche sino-britanniche. Sebbene presentato come risolutivo, l’accordo non scioglie i nodi relativi ai servizi finanziari, alla regolamentazione digitale e alla gestione delle certificazioni, che restano le vere partite economiche tra USA e UK.

Implicazioni globali e scenari futuri

L’escalation tariffaria americana ha accelerato la frammentazione del commercio globale, incentivando la regionalizzazione delle catene del valore. Le imprese multinazionali, colpite dall’incertezza, stanno riconsiderando le proprie strategie di approvvigionamento e investimento, con serie ricadute per le supply chain in tutto il mondo.

Un aspetto spesso trascurato riguarda il ritardo fisiologico con cui le tariffe producono effetti concreti sull’economia reale. Fino a quando le scorte preesistenti a magazzino non si esauriscono, le imprese possono tamponare l’impatto dei rincari. Solo nei mesi successivi, quando le importazioni soggette ai nuovi dazi iniziano a sostituire i vecchi stock, le conseguenze diventano tangibili: prezzi più alti, margini più stretti, inflazione in risalita. Chi si aspettava conseguenze immediate deve aspettare ancora un po’, mentre chi ha visto nella – per ora – mancata esplosione dell’inflazione una supposta dimostrazione che i dazi funzionano, si dovrà presto ricredere: prima si dà fondo alle scorte, poi arriva l’inflazione e, infine, le conseguenze sulle vite di milioni di americani che a tutt’oggi vivono paycheck to paycheck, da stipendio a stipendio, senza nessun tipo di cuscinetto economico per far fronte all’aumento dei prezzi. Una lettura confermata anche da un’analisi di Bloomberg, che ha sottolineato come gli effetti delle tariffe imposte nel 2018 abbiano impiegato mesi prima di trasmettersi ai prezzi al consumo.

Quello che rimane sul piatto è un teatro retorico. L’obiettivo finale di Trump non è tanto l’applicazione letterale dei dazi più alti, quanto la costruzione di uno scenario negoziale deformato in cui diventa plausibile accettare condizioni altrimenti irricevibili. Il resto è rumore di fondo, pensato per stordire e negoziare dalla posizione più aggressiva. Un metodo che Trump ha mutuato dalla sua attività da immobiliarista.

Allo stesso tempo, il sistema multilaterale del commercio, incarnato dall’OMC, appare sempre più marginalizzato. Le politiche unilaterali di Washington spingono le altre potenze a privilegiare accordi bilaterali o regionali, riducendo la capacità del diritto internazionale di governare i flussi commerciali.

L’endgame di Trump

La strategia tariffaria dell’amministrazione Trump rappresenta una sfida sistemica all’ordine economico liberale costruito nel secondo dopoguerra. Se da un lato essa risponde a pressioni interne legate alla deindustrializzazione e alla concorrenza cinese, dall’altro rischia di alimentare una spirale protezionistica che potrebbe danneggiare più di chiunque altro l’economia statunitense.

Nonostante l’enfasi mediatica sulle tariffe iperboliche – il 145 per cento sulle auto cinesi, ad esempio – l’obiettivo reale di Trump non è tanto la loro applicazione quanto la costruzione di una cornice negoziale. Escalate to de-escalate, come direbbero i diplomatici strategici: sparare alto per far accettare una condizione che, di per sé, causerebbe una levata di scudi. L’architettura finale lascia quindi intravedere il vero obiettivo: un dazio del 10 per cento universale su tutte le importazioni, indistinto, strutturale, che rappresenta già di per sé un colpo durissimo all’ordine commerciale globale e sarebbe stato impensabile fino a pochi mesi fa, mentre ora sembra il male minore.

La vera domanda, a questo punto, è come Trump intenda gestire il consenso interno quando l’inflazione causata dalle sue politiche comincerà a erodere il potere d’acquisto di milioni di americani. A quel punto finirà la strategia, e comincerà la realtà.

Jefferson-Lettere sull'America è un portale d'informazione interamente dedicato agli Stati Uniti d'America, fondato e diretto da Matteo Muzio, giornalista e americanista.

Giacomo Stiffan

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