Le missioni militari del governo Meloni: continuità e (potenziali) novità

L’attenzione mediatica relativa alle missioni italiane, nonostante un impegno militare considerevole ormai da decenni, è tradizionalmente limitata. L’attuale dibattito sulla partecipazione italiana alle operazioni internazionali si è concentrato principalmente sui nuovi interventi previsti (tre missioni dell’Unione Europea riguardanti Ucraina, Libia e Niger e una – bilaterale – in Burkina Faso) e sulla conferma di un numero davvero significativo di forze armate dispiegate oltre confine, in uno scenario ancora profondamente condizionato dalla guerra in Ucraina.

L’analisi della deliberazione, della relazione analitica e della discussione finora avvenuta in parlamento – alimentata in particolare dalle parole dei relatori di maggioranza e dei ministri Tajani e Crosetto – consente di evidenziare tre aspetti centrali dell’approccio del governo Meloni alle missioni militari: un’attesa conferma, un (persistente) dubbio e una (potenziale) novità.

La continuità nella cornice internazionale

Il primo elemento attiene alla continuità rispetto alle principali operazioni condotte e al framework multilaterale di intervento (ONU, UE e NATO). Come prevedibile e previsto, alla luce della letteratura in materia di partiti e politica estera, del programma elettorale, delle dichiarazioni e del comportamento pregresso delle forze di maggioranza, le scelte della politica di difesa del governo Meloni confermano l’ormai tradizionale ruolo dell’Italia di “international peacekeeper, con una presenza di migliaia di soldati in più di 40 missioni oltre confine.

La consistenza massima delle forze (superiore alle 10.000 unità) rappresenta uno dei dati più elevati nel nuovo secolo, non dissimile però da quello dell’anno passato. In altre parole, dal governo Draghi all’esecutivo Meloni non si denotano particolari “scossoni” nelle scelte di fondo sulle missioni, rimarcando quell’approccio sostanzialmente bipartisan che da lustri vede nell’impiego delle forze armate un asset centrale della politica estera italiana.  

I contesti prioritari per le missioni militari italiane

Il secondo aspetto che emerge dall’analisi del dibattito non ha i contorni della conferma o della certezza. Al contrario, si pone come un quesito aperto a molteplici risposte. Quale è l’area principale di intervento per le operazioni italiane? Le migliaia di soldati schierati (in cielo, terra e adesso anche in mare) in tutta l’Europa Orientale ribadiscono il cospicuo contributo italiano al fianco est della NATO, nonché l’impegno nei confronti di UE e alleati sul fronte delle politiche di sostegno a Kiev. Tali numeri, assieme alla preoccupazione per le conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina, consentono allora di considerare l’Europa come l’area vitale per la difesa italiana?

Deterrenza e difesa territoriale si affermano come nuovi paradigmi anche per l’Italia, come lo erano negli anni della Guerra Fredda? O, piuttosto, sono i contesti geografici tradizionali (dal Medio Oriente ai Balcani, con presenza militare in aumento) ad essere i più rilevanti? Al tempo stesso, i riferimenti all’Indo Pacifico, per ora limitati sul piano militare (si mira a “consolidare il nostro posizionamento nell’area”), possono davvero rappresentare un punto di svolta? Sebbene tutte queste domande appaiano legittime, il dibattito attuale sembra identificare nuovamente il Mediterraneo – usando le parole del Ministro Crosetto – come “l’area di primario interesse strategico” per l’Italia. Al di là delle difficoltà connesse allo scenario di sicurezza e al generale ritiro delle forze (non solo italiane) dal Mali, il triangolo che coinvolge Libia, Corno D’Africa e Golfo di Guinea, con il Sahel nel mezzo, pare emergere ancora una volta come il contesto fondamentale per la difesa degli interessi nazionali di fronte a minacce ritenute centrali (ivi compresa l’influenza di attori esterni).

Una strategia di sicurezza nazionale

Infine, il terzo elemento che si può desumere dall’analisi dei documenti e della discussione parlamentare relativa ad avvio e proroga delle missioni militari, è la presenza di alcune potenziali ma significative novità. In particolare, l’intervento del Ministro Crosetto ha delineato possibili discontinuità, non tanto per l’approvazione di queste operazioni, quanto per il complessivo approccio della difesa in materia. Infatti, la revisione di modalità e tempistiche nell’implementazione della legge 145 (che da anni si commenta da sola: approviamo a maggio alcune missioni che terminano…adesso!), nonché la richiesta di una valutazione complessiva di risultati e lezioni apprese delle missioni e l’elaborazione di una (prima) strategia di sicurezza nazionale che guidi le scelte della difesa, appaiono necessità lungamente attese e auspicate.

È poi paradossale, ma non sorprendente dato il contesto politico e culturale italiano, che la riflessione del ministro sull’opportunità di modificare il generale approccio nazionale alle operazioni, abbia sollevato così poca attenzione. Se rivedere la postura nella generazione dei contributi nazionali (andando oltre l’invio di qualche unità militare come “atto di presenza”, senza poter influenzare strutture di comando) è da tempo una esigenza condivisa, sebbene mai realizzata, l’aperta consapevolezza che addestrare forze locali “e andarsene” non garantisce un miglioramento delle condizioni politico-sociali e di sicurezza di un paese, merita approfondimento. Tale interesse è giustificato sia dalla centralità che l’addestramento di forze locali ha rivestito finora per l’Italia (e forse rivestirà anche in un contesto assai controverso come il Burkina Faso), sia dalla ormai solida letteratura in materia che conferma come la mera security assistance non porti generalmente a risultati positivi sul piano della stabilità e dello sviluppo, e che talvolta si riveli addirittura controproducente.

Tutte queste novità appaiono potenzialmente rilevanti ma necessitano tempo e ulteriori conferme. Al momento non appare chiaro infatti quale approccio “sistemico” si voglia adottare sulle missioni (e con quali fondi, dato anche lo stato non roseo delle risorse destinate alla cooperazione), né quale processo si voglia avviare per la diversa implementazione della 145, per la valutazione delle operazioni, e per la tanto attesa elaborazione dì una strategia nazionale. In ogni caso sarebbe auspicabile che tale percorso venga fatto coinvolgendo in modo sostanziale e fattivo le competenze di una vasta pluralità di attori – dentro e fuori il parlamento – alimentando, per una volta, un dibattito ampio e strutturato sulla difesa italiana.

Foto di copertina ANSA/GIUSEPPE LAMI

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