Mali: l’ombra del colonello Goïta dopo il referendum costituzionale

Il 18 giugno, i cittadini del Mali hanno votato in un referendum per approvare la nuova costituzione. La giunta militare al potere considerava tale appuntamento elettorale, formalmente, un passo fondamentale verso il ripristino di un governo civile. In realtà, sia il voto referendario che la nuova costituzione rappresentano l’ennesimo tassello della strategia del colonnello Assimi Goïta volta a consolidare il proprio potere nel paese saheliano.

La fragilità del regime in Mali

Il referendum costituzionale è considerato un passaggio cruciale per permettere poi di avere le elezioni presidenziali, previste formalmente per febbraio 2024. Dall’epoca del colpo di stato del 2020, che ha deposto il presidente Ibrahim Boubacar Keïta, il Mali è governato da una giunta militare, il cui principale protagonista è per l’appunto Goïta: prima da presidente provvisorio e capo del Comitato nazionale per la salvezza del popolo (Comité national pour le salut du peuple – CNSP), poi da uomo forte militare de facto in controllo durante la presidenza di Bah Ndaw, quest’ultimo rimosso nove mesi dopo con un secondo golpe, dopo il quale il colonnello si autoproclamò presidente ad interim, e guidando da allora le redini del governo.

Dal 2012, il Mali si trova in una situazione di perenne insicurezza e fragilità, a causa della violenza scatenata da fazioni militanti affiliate ad al-Qaeda e allo Stato Islamico, gruppi di ribelli Tuareg e svariate milizie e bande di vigilanti, spesso costruite su base etnica, che combattono le forze considerate anti-stato. Inoltre, nel corso degli ultimi due anni, l’arrivo nel paese del gruppo paramilitare russo Wagner, forza alla quale la giunta maliana si è ripetutamente appoggiata per supportare la propria campagna anti-terrorismo ha in realtà esacerbato ulteriormente tensione e violenza, come riportato da vari osservatori accreditati. Wagner ha in sostanze preso il posto delle truppe francesi, ritiro causato dall’escalation delle tensioni tra la giunta e il governo francese, culminato nella fine dell’operazione Barkhane del 2022.

Inoltre, ulteriore dimostrazione della complessità della situazione maliana, nei giorni che hanno preceduto il referendum, la giunta maliana ha richiesto il ritiro immediato della Missione di Stabilizzazione Integrata Multidimensionale delle Nazioni Unite in Mali (Minusma), che avverrà il 30 giugno.

La nuova Costituzione post-referendum

Il voto al referendum è stato impedito in numerosi distretti, in particolare nelle aree centrali e settentrionali del paese, principalmente a causa dell’apprensione per gli attacchi jihadisti e le tensioni politiche. Molte sezioni elettorali sono state costrette a chiudere, incluso l’intero tutti le sezioni elettorali che dovevano essere aperte nel distretto settentrionale di Kidal. In varie parti del paese, individui armati hanno rapito funzionari elettorali portandoli via dai posti loro assegnati. Inoltre, i ribelli Tuareg provenienti dal nord del Mali hanno esortato i loro seguaci a respingere o boicottare il referendum, affermando di essere stati esclusi dal processo di stesura della costituzione, problema atavico e mai veramente risolto che si ripropone ciclicamente ogni qual volta che in Mali si tenta di riformare le istituzioni.

Nonostante le sfide poste dall’insicurezza prevalente e un basso afflusso di votanti di circa il 38%, si prevede ampiamente il successo del voto “sì”. La nuova costituzione proposta, composta da 195 articoli, mira a sostituire l’attuale costituzione promulgata nel 1992. Uno dei cambiamenti più controversi nelle revisioni proposte è l’importante potenziamento dell’autorità presidenziale, che risulta in una nuova costituzione che porta un’impronta presidenzialista alquanto marcata e distinta.

La nuova costituzione pone un notevole accento sull’identità del Mali come società laica, proibendo esplicitamente la discriminazione basata sulla religione e garantendo la protezione della libertà di religione. Tuttavia, questa particolare disposizione ha ricevuto critiche da parte di alcuni gruppi religiosi, che hanno denunciato il laicismo come un “termine anti-islamico”, ritenendolo offensivo per la maggior parte della popolazione, e che vorrebbero la definizione di “stato multireligioso” come sostituto.

Chi combatte in Mali

Dal 2012 il Mali è in una complicata spirale di violenza che da allora non si è mai fermata. Inizialmente furono i territori del nord, i distretti di Gao, Kidal, e Timbuctu, a essere quelli immediatamente interessati dall’ondata di destabilizzazione regionale dalla guerra in Libia, dall’arrivo dei combattenti Tuareg orfani di Gheddafi e della riorganizzazione avvenuti negli anni antecedenti delle reti jihadiste, che avevano trovato nel nord del Mali una sorta di santuario. Da allora, però, l’instabilità si è diffusa anche nelle regioni centrali e meridionali, dove persistono gli attacchi dei militanti della Provincia Sahel dello Stato Islamico (ISGS) e del Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Gruppo per i Sostenitori dell’Islam e dei Musulmani — JNIM) di al-Qaeda.

Tuttavia, i due gruppi tendono ad avere approcci diversi e continuano anche a combattere tra loro. ISGS, nonostante considerato da molti in crisi, ha ottenuto una serie di successi militari negli ultimi mesi, in particolare nelle regioni di Gao e Ménaka. In quest’ultima, ISGS ha occupato la città di Tidermène ad aprile, lasciando la capitale del distretto, Ménaka, isolata e circondata.

JNIM invece sta perseguendo oramai da un po’ di tempo una strategia sempre più visibile di prioritizzazione locale jihadista, sebbene mantenga il suo rapporto formale con al-Qaeda Centrale, cercando di presentarsi come attore propriamente maliano, lontano dall’idea di Jihad globale, e interessato ad ottenere soluzioni per le popolazioni locali. In parte, questi sforzi hanno raggiunto lo scopo: ad esempio, nel loro ultimo rapporto, la Coalizione dei Cittadini per la Pace, l’Unità e la Riconciliazione Nazionale (Coalition citoyenne de la société civile pour la paix, l’unité et la réconciliation nationale CCSC-PURN) ha chiamato al dialogo con “i leader militanti dei gruppi che affermano di sostenere i valori di unità e integrità del territorio maliano”, come i leader del JNIM Iyad Ag Ghali e Amadou Kouffa, leader della Katiba Macina. Pochi giorni prima delle elezioni, JNIM ha rivendicato tre attacchi, incluso uno contro il gruppo Wagner, tutti e tre gli incidenti sembrano essere avvenuti nella regione centrale di Segou in Mali.

Il voto referendario, sebbene disturbato da violenze e scarsa affluenza, rappresenta un parziale rafforzamento per la giunta e per Goïta, e probabilmente rappresenta il primo passaggio verso l’organizzazione delle elezioni presidenziali per il 2024. Queste elezioni però, difficilmente riporteranno il Mali ad una normalità democratica, ma – soprattutto qualora Goïta dovesse candidarsi, come sembra probabile anche grazie all’articolo 57 della nuova costituzione– rappresenterebbero un ulteriore passo verso il rafforzamento del potere militare sul sistema politico maliano. Potere che deve continuare a confrontarsi con gruppi jihadisti che, nonostante la presenza di Wagner e l’azione della giunta, continuano a rappresentare una minaccia significativa, con JNIM sempre più capace anche di avere dalla sua parte della società civile maliana, che vede il gruppo e alcuni dei suoi leader come legittimi partner di un potenziale negoziato e non solo come nemici.

Foto di copertina EPA/HADAMA DIAKITE

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