Al momento della scrittura di questo articolo, tratto da un mio paper, è in vigore un fragile cessate il fuoco tra Israele e Iran. I due paesi si sono confrontati in una fase di aperto conflitto che, pur nella sua durata di appena dodici giorni, ha dato una sferzata decisiva agli equilibri regionali in Medioriente.
Nella notte tra giovedì e venerdì 13 giugno, Israele ha lanciato un attacco a sorpresa su siti nucleari e missilistici della Repubblica Islamica, eliminando figure chiave della catena di comando militare e scientifica degli apparati legati allo sviluppo del programma nucleare iraniano. In risposta, Teheran ha lanciato un contrattacco missilistico su Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme.
Lo scambio di fuoco tra le due potenze rivali è proseguito per dodici giorni: ad aggravarlo ulteriormente, è sopravvenuto l’intervento americano nella notte del 22 giugno su tre centrali nucleari in Iran che ha rischiato di dare al conflitto una dimensione globale, aprendo scenari impensabili fino a poche settimane prima: uno strisciante estendersi della guerra nel lungo periodo e un suo possibile allargamento geografico, un collasso del regime con una transizione dagli esiti imprevedibili, o ancora una sopravvivenza del regime stesso che lo renderebbe ancora più determinato a conseguire l’arma atomica. Pur nell’attuale situazione di cessate il fuoco, nessuna di queste eventualità può essere del tutto esclusa.
Anche se è la prima volta che le tensioni sfociano in uno scontro aperto, quella tra Iran e Israele è una guerra latente che dura da tempo. Nell’ultimo decennio, entrambi i paesi hanno investito capitale militare, diplomatico e politico nel tentativo di accerchiamento e isolamento dell’avversario. La Repubblica Islamica ha finanziato e armato una serie di gruppi paramilitari in tutto l’arco del Levante – Libano, Siria, Iraq e Yemen – investendo in particolare nell’armare il gruppo libanese di Hezbollah, operativo alla frontiera con Israele, con cui si era già confrontato specialmente nella guerra del 2006. L’apparato missilistico e l’arricchimento nucleare costituivano altri strumenti che affiancavano quelli del confronto tramite proxies.
Israele ha proceduto quasi in modo speculare, da un lato dando prova di condurre operazioni mirate contro i gruppi paramilitari legati a Teheran ed eliminando personalità di spicco del regime operative in Iraq e Siria; dall’altro, espandendo la sua rete di relazioni diplomatiche con alcuni paesi chiave del Golfo attraverso i cosiddetti accordi di Abramo e accerchiando il nemico con una serie di avamposti militari nel Kurdistan iracheno e nel Caucaso.
Dall’ottobre 2023 in poi questo fragile equilibrio che tratteneva Israele e Iran da uno scontro diretto si è gradualmente logorato. Nell’aprile del 2024, l’attacco israeliano al consolato dell’Iran in Siria già aveva portato a un primo lancio di missili iraniani su Israele – quasi tutti intercettati. Nel corso dei mesi successivi esponenti di spicco del cosiddetto asse della resistenza sarebbero morti in attacchi condotti da Israele a Teheran – tra di essi il leader politico di Hamas Ismael Haniyeh, il 31 luglio 2024, e a poche settimane di distanza l’iconico leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ucciso nella periferia sud di Beirut. In ottobre, l’Iran rispondeva con un secondo lancio di missili su Israele – anche questo largamente simbolico poiché intercettato dalle difese israeliane.
Tuttavia, i presupposti perché la guerra latente potesse diventare una guerra diretta erano già stati posti. Israele aveva testato la reazione di Teheran prima su obiettivi minori e successivamente su obiettivi più importanti (come Nasrallah) – suscitando da parte della Repubblica Islamica reazioni relativamente simboliche e limitate, rendendo sempre più plausibile l’idea che un confronto aperto avrebbe comunque visto Israele prevalere.
La nuova elezione del presidente Trump alla Casa Bianca e il lento procedere dei negoziati sul nucleare hanno fornito un’opportunità in più ad Israele per procedere in questa direzione. Da aprile, gli incontri tra Iran e Stati Uniti per un nuovo accordo sul nucleare sono avanzati a rilento e hanno avuto una forte battuta di arresto di fronte alla proposta americana che prevedeva lo smantellamento del programma nucleare iraniano nella sua componente sia civile che militare (zero enrichment policy), una nota linea rossa per i negoziatori iraniani.
Complici dei tenui progressi in ambito negoziale sono stati per parte loro anche gli E3 e gli stati del Golfo. Gran Bretagna, Francia e Germania, firmatari del primo accordo (il Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA) del 2015 hanno mostrato un tiepido sostegno per il processo negoziale e hanno invece minacciato l’imposizione di sanzioni più dure per punire l’alto tasso di arricchimento di uranio da parte dell’Iran. Altre potenze regionali – e in particolare l’Arabia Saudita – hanno optato per l’attendismo, pronte a fare leva cinicamente sulle pressioni degli Stati Uniti e di Israele, per costringere l’Iran a un negoziato che limitasse la percentuale di arricchimento e lo declassasse in quanto potenza regionale. Il fallimento della diplomazia ha quindi lasciato il sopravvento alla forza militare.
L’attacco americano ha aperto lo scenario di un allargamento geografico del conflitto e di un suo prolungamento nel tempo che potrebbe consolidare e radicalizzare il regime, o alternativamente farlo crollare. Al momento, l’alternativa del ritorno al tavolo negoziale si profila come la sola ed unica opzione che possa garantire un Iran senza arma atomica e stabilità regionale. L’azione militare di Israele, pur proponendosi di eradicare il problema con la forza, rischia di avere effetti imprevedibili e aumentare esponenzialmente i rischi per la sicurezza e la stabilità di Stati Uniti, Europa e Italia.
Dal punto di vista militare il principale risultato ottenuto da Tel Aviv e stato quello di mettere in evidenza le difficoltà croniche della contraerea iraniana, tecnologicamente arretrata a monte ed ora ridotta al minimo delle forze. Nonostante la facilità nell’ottenere un controllo sullo spazio aereo sia per Israele una garanzia di capacità di nuovo intervento, sembra che il programma nucleare iraniano non sia stato intaccato dai dodici giorni di conflitto in maniera irreversibile, neppure dopo il bombardamento statunitense. È verosimile a questo punto che nel dibattito interno alle élite iraniane la necessità di dotarsi di un’arma atomica, anche solo come strumento di deterrenza, diventi priorità assoluta, e i primi segnali in questa direzione non si sono fatti attendere – a partire dalla discussione nel parlamento di Teheran sull’opportunità di uscire dal Trattato di Non Proliferazione.
Scenario 1: Ripresa e allargamento del conflitto
Le opzioni di Teheran di fronte all’attacco statunitense si sono rivelate limitate. La reazione è rimasta circoscritta ad un attacco, di grande efficacia simbolica ma senza effetti tangibili, contro la base americana in Qatar, innescando una serie di reazioni di circostanza che non hanno impedito il raggiungimento del cessate il fuoco mediato proprio dagli Stati Uniti.
Nella sua risposta, Teheran ha deciso di non seguire la sua tradizionale teoria della deterrenza tramite proxies in Iraq o in Yemen. L’opzione più diretta per reagire all’attacco americano poteva infatti essere quella di ricorrere alle milizie alleate in Iraq (Kataeb Hazbollah o Nujaba) per lanciare un attacco sulla base americana di Ain al-Assad, al confine tra Iraq e Siria. L’azione destabilizzatrice avrebbe potuto essere poi estesa con la ripresa di attacchi Houthi nel Mar Rosso o un blocco dello stretto di Hormuz – entrambi nodi cruciali del commercio del Golfo e globale. Un attacco lanciato dalle milizie avrebbe però fornito una giustificazione per un contrattacco statunitense (e forse israeliano) su queste, decimando un asse della resistenza già indebolito da due anni di conflitto indiretto con Israele. Altre azioni, come bloccare lo stretto di Hormuz, avrebbero colpito gli interessi della Cina, che beneficia dell’apertura dello stretto per garantire la propria posizione nel commercio globale, con il rischio di allontanare Pechino da Teheran.
L’Iran ha invece optato per una risposta largamente simbolica, colpendo le basi del Qatar, paese che vanta relazioni politiche, economiche e energetiche di lungo periodo con la Repubblica Islamica. Il Qatar ha assorbito il colpo trasformando l’attacco in una opportunità per farsi interlocutore privilegiato degli Stati Uniti e mediatore dell’attuale cessate il fuoco. Anche se puramente simbolico, l’attacco di Teheran su basi americane nel Golfo, rischia di aver aperto la strada a un progressivo incrinarsi dei rapporti tra Iran e Golfo arabo riaprendo ferite mai interamente sanate tra Repubblica Islamica e Arabia Saudita, attore principale nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il ripetersi di queste azioni potrebbe paradossalmente giocare a favore di Israele – e avrebbe tutto il potenziale per coinvolgere e coalizzare ancora di più gli Stati Uniti al fianco di Israele, attirando al contempo dalla loro parte gli stati del Golfo, già fortemente impattati dalla crisi in corso –, una prospettiva che annienterebbe qualsiasi possibilità per un ritorno al negoziato.
Questo primo scenario di ulteriore coinvolgimento americano aprirebbe anche la possibilità di un nulla osta statunitense a Israele per l’eliminazione della guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, volta a indebolire la coerenza interna allo stato iraniano, approfondire fratture interne al regime e istigare un collasso di stato e regime.
La storia degli ultimi decenni in Medio Oriente ci mostra che il vuoto politico lasciato dalla caduta di regimi autoritari è difficile e potenzialmente costoso da gestire. Qualunque sia stata la causa del cambio di regime – un’invasione militare esterna (si pensi ad esempio al costo umano e finanziario delle invasioni post-11 settembre per mano americana in Iraq e Afghanistan) o proteste popolari (come nel caso delle proteste popolari che hanno portato alla caduta dei regimi in Egitto, Tunisia, Libia e Sudan) – nessuna di queste transizioni ha portato democrazia o stabilità. La rapidità della caduta di sistemi autoritari che tengono in scacco le istituzioni dello stato porta di frequente ad una caduta congiunta di regime e stato che lascia a reti di opposizione il potere assoluto, portandole a gestire e manipolare la transizione a seconda dei loro interessi specifici, legati a egoismi personali, appartenenze comunitarie o locali. Nella totalità dei casi sopra menzionati, anche se in forme e modalità diverse, l’esito delle transizioni post-autoritarie ha lasciato lo stato debole, frammentato, vulnerabile a influenze regionali – di frequente coinvolte dalle opposizioni salite al potere.
I più recenti esperimenti in Libano e Siria, l’indebolimento di un attore centrale e quasi statale da un lato e la caduta di un regime pluridecennale dall’altro, provocati indirettamente dall’azione militare di Israele sull’intero arco della resistenza legato a Teheran, hanno prodotto effetti ancora in larga parte imprevedibili. In Libano, nonostante un nuovo governo sia al potere e un nuovo presidente sia stato eletto, il paese fatica a riprendersi ed e ancora lontana la prospettiva di un’esclusione di Hezbollah dal calculus politico, o quantomeno la riduzione del peso della sua componente terroristica a vantaggio di quella partitica. La caduta del regime in Siria presenta caratteristiche simili, con una nuova leadership al potere che di fatto monopolizza la transizione e fatica ad assicurare stabilità interna, coesistenza intra-comunitaria pacifica e unità statale del paese.
Lo scenario di caduta del regime in Iran lascia un margine di imprevedibilità e ha una forte potenzialità destabilizzatrice che rischia di impattare l’intera regione e con essa l’Europa tutta.
Scenario 2: Conflitto di lungo periodo a bassa intensità
Una seconda opzione per Teheran è quella di continuare una guerra di bassa intensità su Israele – senza necessariamente ricorrere agli alleati regionali, dopo aver scelto di limitare la ritorsione contro gli Stati Uniti al puro evento simbolico.
Scegliendo questa seconda opzione, l’Iran potrebbe “salvare” una via d’uscita diplomatica con gli Stati Uniti, utilizzare la prospettiva di una guerra a bassa intensità contro Israele per riprendere peso strategico. Infatti, né Israele né gli Stati Uniti intendono invischiarsi in un conflitto di lungo periodo. Per Israele, la prospettiva di un conflitto a bassa intensità che obbliga comunque i suoi civili a uno stato di allerta continuo è costosa – soprattutto se il regime iraniano non dà segnali di vacillare. Nonostante la poca credibilità di cui gode tra gli iraniani, una guerra di medio o lungo periodo potrebbe paradossalmente rafforzare le credenziali nazionaliste del regime di Teheran e ravvivare la precaria legittimità della classe politica della Repubblica Islamica, sulla base della sua capacità a resistere all’attacco di Israele.
Se il regime di Teheran dimostra di essere capace di resistere ad una guerra di medio e lungo periodo, questo avrà molto probabilmente l’effetto di rafforzare le voci più estremiste nella compagine politica e militare del regime, rafforzando la dimensione simbolica dell’Islam sciita. Resistenza, tradimento e martirio sono temi fortemente sentiti nella storia dell’Islam politico sciita, vissuti durante il decennio della guerra Iran-Iraq (nella quale l’Occidente diede pieno sostegno a Saddam Hussein) soprattutto dalle fazioni militari del regime di Teheran, che vennero particolarmente segnate da quella guerra. La resistenza contro Israele e l’Occidente anche a costo dell’immolazione potrebbe essere rappresentata dalle autorità politiche come ‘profetica’ e potrebbe dare nuovo impeto ideologico a un regime altrimenti discreditato, rendendolo determinato a perseguire la via dell’arma atomica.
Scenario 3: Ritorno al tavolo negoziale
Lo scenario di un ritorno a un tavolo negoziale è l’opzione più desiderabile – non solo perché evita morti civili ma proprio perché si presenta come quella che offre risultati più concreti nel garantire un Iran senza arma atomica, prevenire un conflitto espanso a tutta la regione e limitare l’imprevedibilità di un cambiamento di regime.
La via della diplomazia è però anche la più difficile da perseguire e necessita un ruolo proattivo degli Stati Uniti nel proporre un accordo che sia accettabile per Teheran anche con l’intermediazione dei paesi del Golfo. Se inizialmente Trump mirava a fare leva sulle operazioni militari israeliane per costringere l’Iran ad arrivare a un negoziato in ginocchio, il risultato ad ora è stato quello di permettere ad Israele di rendere sempre meno probabile un ritorno al negoziato e trascinare Washington nel vortice di un conflitto prolungato.
Gli ostacoli lungo il percorso sono molti, primo fra tutti il fatto che Trump si aspetta che la diplomazia aggressiva dia dei risultati. L’idea di un consorzio regionale per l’arricchimento potrebbe essere una modalità di compromesso che permetterebbe a Trump di rivendicare la fine del programma nucleare iraniano.
Al contrario delle aspettative di Trump, l’Iran del post-attacco rischia però di essere ancora meno propenso ad un compromesso sull’arricchimento. La leadership politica si riunisce attorno ad un sentimento di solidarietà e un sospinto senso di appartenenza nazionale che è trasversale ai diversi orientamenti politici (riformisti e conservatori) e che vede come un’umiliazione accettare il completo smantellamento del programma nucleare. L’espulsione degli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e un primo segnale in questa direzione. Diplomatici e dirigenti iraniani faticano ad adattarsi all’approccio trumpiano di un negoziato semplice e si aspettano un ritorno al tavolo negoziale con dettagli su percentuali possibili di arricchimento e sanzioni.
A complicare il quadro sono altri attori: Europa e Golfo. I paesi del Golfo esitano a proporre l’idea di un consorzio per l’arricchimento desiderando essi stessi avere un proprio programma nucleare. Sollecitati dall’Iran come tramite per un nuovo round negoziale con Trump, molti si sono dimostrati attendisti e hanno esitato a farsi avanti, dando la priorità alla propria relazione bilaterale con il presidente americano. Gli E3 restano anch’essi immobili. Il cessate il fuoco ha spostato l’attenzione su altri conflitti in corso (Libano, Siria e Gaza), con Francia e Germania che mostrano un’intransigenza simile a quella di Trump, se non ancora più ferma, nel legare dossier nucleare ad altri temi, come l’apparato missilistico o/e il finanziamento a gruppi proxy nella regione.
Questi sono gli ostacoli da superare e la tempistica in questo contesto e essenziale. Più si rimanda un ritorno al negoziato più si rischia di prolungare ed espandere il conflitto. In questo, la guerra a Gaza dovrebbe essere di monito.
Responsabile del programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali. È stata consigliere speciale per il Medio Oriente e Nord Africa al Centro per il Dialogo Umanitario di Ginevra (2020-2023) e all’International Crisis Group (ICG) di Bruxelles (2012-2020).