L’incerto futuro dell’Europa della difesa

Quando un ambizioso processo di trasformazione, come è la costruzione di un’ Europa della difesa, rallenta e, anzi, in alcune componenti si ferma, bisogna cercare di capire quali sono le cause, quanto gravi e quali, se praticabili, i possibili rimedi. Di fronte ai numerosi preoccupanti segnali, sperare che si tratti di una momentanea perturbazione destinata a passare con la fine della già iniziata campagna elettorale per le prossime elezioni europee, potrebbe rivelarsi una pericolosa illusione.

La risposta europea all’aggressione russa

L’elemento scatenante dell’attuale crisi è individuabile nell’attacco russo all’Ucraina. L’aggressione russa ha allarmato i paesi dell’Unione Europea anche perché pochi se la aspettavano fino ad allora: nonostante l’annessione della Crimea avvenuta otto anni prima, pochi credevano che la Federazione Russa sarebbe arrivata ad infrangere platealmente solenni impegni e diritto internazionale all’interno del Vecchio Continente.

Di qui una forte risposta europea che si è articolata su tre piani, in sintonia con quella transatlantica:

– politico (condanna dell’aggressione e rafforzamento della Nato sia sul piano operativo sia con il suo allargamento a Svezia e Finlandia);

– economico (sanzioni sempre più pesanti);

– militare (trasferimento all’Ucraina di mezzi e, soprattutto, munizionamento e missili; maggiore sforzo e “serietà” nel rispettare l’impegno assunto nel 2014 ad arrivare ad una quota del 2% del Pil per le spese militari; avvio di massicci programmi nazionali di acquisizione di equipaggiamenti militari).

Tutto questo è avvenuto in un contesto in cui l’unica organizzazione politico-militare disponibile, la Nato, era, secondo alcuni, avviata sulla via del tramonto, soprattutto perché il baricentro del confronto strategico e militare si stava spostando verso l’indo-pacifico (e così l’attenzione e l’impegno militare americano) e, viceversa, erano state appena gettate le basi per costruire l’Europa della difesa (perlomeno a livello di volontà politica e di maggiore collaborazione operativa, tecnologica e industriale, per altro in un quadro debolissimo sul piano istituzionale e persino giuridico visto che continuiamo a convivere con un Trattato fermo alle modifiche introdotte nel dicembre 2009).

L’inevitabile scelta è stata, quindi, quella di cercare di riparare la vecchia costruzione transatlantica (e far finta di non vederne i limiti oggettivi nel far fronte al nuovo scenario geo-strategico) e di non investire eccessive energie in quella nuova che stava lentamente prendendo forma, quella europea. Ovviamente quanti speravamo di poter trovare riparo in quest’ultima hanno dovuto velocemente traslocare o abbassare la testa per cercare di sopravvivere alla tempesta (che, però, si prolunga oltre ogni previsione e rischia di diventare endemica, in linea con il cambiamento climatico).

Fra gli effetti secondari di questo rafforzamento politico-militare della Nato vi è stata la maggiore attenzione al fronte est e, al suo interno, del numero degli Stati che sentono la minaccia russa come prioritaria, con il conseguente oblio nei confronti del fronte sud nonostante il drammatico aumento dell’instabilità della fascia centro-africana in aggiunta a quella libica. In questi paesi africani sta, per altro, crescendo e si sta consolidando l’influenza russa, che già di per sé dovrebbe preoccupare l’Occidente e soprattutto l’Unione Europea sia per le conseguenze strategiche sia per quelle immediate come l’ulteriore spinta al fenomeno emigratorio.

Le implicazioni della guerra in Ucraina sulla difesa

Se ci si concentra sul terzo piano della risposta europea, quello militare, emergono, fra gli altri, queste criticità:

1 Il trasferimento all’Ucraina di equipaggiamenti ha progressivamente sguarnito le forze armate europee: dopo i mezzi di costruzione russa ancora disponibili si è dovuti passare a quelli occidentali (col relativo munizionamento) e man mano che il conflitto si protraeva e i bombardamenti russi all’intero territorio ucraino si intensificavano, si sono dovuti fornire mezzi sempre più moderni. Poiché, a parte gli Stati Uniti, gli altri paesi occidentali erano preparati solo ad una resistenza di breve durata di fronte ad eventuali attacchi russi (contando sull’intervento Nato e in particolare americano), le loro dotazioni e scorte si sono ridotte al di sotto del livello di guardia. Di qui una forte spinta ad acquisire rapidamente nuovi equipaggiamenti.

2 L’aumento della spesa militare verso il 2% del PIL sta già comportando nuove immediate commesse, anche se alcuni paesi come l’Italia e ora la Germania hanno riconosciuto che la scadenza del 2024 subirà quattro-cinque anni di ritardo e il nuovo rallentamento dell’economia europea potrebbe creare problemi anche ad altri partner. Poiché la base tecnologica e industriale europea è stata da decenni dimensionata su un limitato mercato continentale, gran parte della nuova domanda sta cercando risposta presso le imprese extra-europee (soprattutto americane) o attraverso l’avvio/prolungamento/rivitalizzazione di programmi nazionali per dotarsi di equipaggiamenti moderni che rappresentano solo l’evoluzione più recente di quelli attuali e non un salto generazionale. Questo rischia di provocare due conseguenze negative: aumenterà il ventaglio dei sistemi in servizio nei paesi europei con buona pace dell’auspicata omogeneizzazione che favorirebbe l’efficacia operativa e logistica (riuscendo cosi ad utilizzare meglio le comunque limitate disponibilità finanziarie dei paesi europei) e danneggerà in prospettiva i nuovi programmi comuni di ricerca e sviluppo perché rallenterà o limiterà il successivo passaggio alla loro industrializzazione e produzione (i paesi che avranno appena finito di acquisire nuovi equipaggiamenti non saranno sicuramente ansiosi di procedere ad una loro rapida sostituzione).

3 L’avvio di programmi nazionali di acquisizione di equipaggiamenti militari era ed è inevitabile per motivi di urgenza (quando sono disponibili), di efficacia operativa (essendo già in servizio e conosciuti), di efficienza logistica (molte parti di ricambio sono comuni, anche se a volte le versioni sono diverse), di sostegno economico (essendo capacità strategiche da tutelare) e sociale (in un momento economicamente difficile). Ma questa scelta dovrebbe essere fatta con grande lungimiranza, garantendo il massimo equilibrio possibile fra le scelte che devono muoversi nel breve periodo e quelle che si proiettano nel lungo periodo (tenendo conto che ambedue si accavallano inevitabilmente nel medio periodo). Questo significa garantire che le decisioni non si escludano una con l’altra, ma possano convivere trovando compromessi temporali e finanziari fra le esigenze di oggi e quelle di domani, fra soluzioni nazionali ed europee/internazionali.

L’importanza della cooperazione europea

I principali paesi europei non dovrebbero, invece, perdere di vista le ragioni che li hanno spinti fino ad oggi a cercare nei programmi di collaborazione europea l’unica vera soluzione all’esigenza di avere una difesa efficace e sostenibile, per lo meno per i più importanti programmi (grandi unità navali e sottomarini, velivoli da combattimento e da trasporto, elicotteri da combattimento e pesanti, carri armati e veicoli blindati da combattimento, missili, satelliti). Dovrebbero, quindi, proseguire su questa strada rafforzando, sulla base delle passate esperienze, il principio dell’interdipendenza fra i partecipanti: solo così la condivisione della sovranità tecnologica e industriale potrà essere coniugata con la specializzazione delle capacità nazionali. Nel contempo dovrebbero assicurare la partecipazione ai paesi willing and able per scoraggiarli dal cercare soluzioni in competizione che finirebbero col danneggiare tutti.

Ma dovrebbe anche comportare che le Istituzioni europee non compromettano l’avvio di un percorso comune verso nuove generazioni di equipaggiamenti attraverso il finanziamento di programmi di ricerca e sviluppo (con l’European Defence Fund e altre misure collaterali) per inseguire le esigenze del momento (rispetto alle quali, per altro, possono comunque avere un’efficacia limitata).

Questo diverso approccio non è però sufficiente perché le attuali difficoltà hanno evidenziato le difficoltà intrinseche del processo di integrazione europea nel campo della difesa, legate soprattutto alla diversità e disomogeneità degli Stati membri.

Venticinque anni fa i sei principali Paesi europei decisero di avviare un processo di integrazione fra loro che sfociò due anni dopo in un Trattato internazionale (l’Accordo Quadro di Farnborough) e, nel giro di tre anni, in sei intese attuative. L’iniziativa è stata poi superata dall’avvio di quelle più ampie decise nel quadro dell’Unione Europea (prima l’EDA e poi l’intervento della Commissione e del Consiglio).

Oggi andrebbe riaperta una riflessione sulla possibilità di una nuova iniziativa dei maggiori paesi che, ripartendo dal massimo livello politico e militare, recuperi lo spirito originario della PESCO, la cooperazione strutturata permanente. Su questo piano l’Italia, anche grazie alla ritrovata stabilità politica e alla credibilità del Ministro della difesa e delle Forze armate, potrebbe giocare un ruolo primario.

Foto di copertina EPA/FEHIM DEMIR

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