Libia: il ritorno di un Gheddafi e i rischi del voto

La rosa dei candidati alle elezioni presidenziali in Libia è tanto ricca quanto debole appare il quadro normativo sul quale poggia l’atteso appuntamento con le urne. La più recente delle 17 candidature segnalate per la tornata presidenziale (a cui si affianca quella parlamentare) prevista dal 24 dicembre è dell’ex ministro dell’Interno Fathi Bashagha, giunta a 24 ore esatte da quelle di Khalifa Haftar, Ahmed Maetig e di Aguila Saleh.

È stata tuttavia la discesa in campo di Saif al-Islam Gheddafi, secondogenito del Rais, quella che ha infuocato il Paese mettendo a nudo le molteplici criticità che minano il cammino verso il voto. Saif è riapparso dopo circa un decennio dal suo arresto (e dalla caduta del regime del padre Muammar) in un centro di registrazione in quel Sud della Libia – nel capoluogo del Fezzan, Sebha – dove si sente sicuro e fuori dalla faida fra Tripolitania e Cirenaica. Il suo ritorno in scena è frutto di una regia accurata e il suo cammino, pur costellato di insidie, non è scontato. Processato per le uccisioni di civili durante la rivolta del 2011, la Corte penale internazionale de L’Aia aveva spiccato un mandato di cattura per crimini contro l’umanità.

Nessuna fazione libica ha però mai voluto consegnarlo. Dopo la condanna e cinque anni di prigione è stato liberato nel 2017 e da allora ha tenuto un basso profilo tanto da alimentari le voci di una morte presunta. Fino all’intervista al New York Times della scorsa estate, dopo la quale ha messo in moto la macchina elettorale.

Clima incerto, regole lacunose
La discesa in campo di Saif deve essere valutata con attenzione, non solo perché si inserisce in un clima elettorale incerto, ma perché è essa stessa in grado di mutare gli equilibri in campo. Innanzi tutto perché si tratta di un personaggio (e di un cognome) divisivo, come dimostrano le reazioni a caldo specie delle formazioni islamiste, dei rivoluzionari, di Misurata e della Fratellanza musulmana. Al contempo, però, occorre dire che il rampollo del colonnello gode di sostegno in Cirenaica e Fezzan e in alcune enclavi dell’ovest. Il secondo aspetto è che la discesa in campo di Saif è figlia di una legge elettorale voluta a tutti i costi dal presidente del Parlamento di Tobruk Aguila Saleh (anche a causa dell’immobilità dell’Onu) iniqua e lacunosa.

In primo luogo tale legge ribalta la simultaneità del voto presidenziale e di quello parlamentare prevista dalla risoluzione Onu 2570, esponendo il processo elettorale a un deragliamento in corsa. È opinione diffusa che il quadro normativo sia cucito su misura per Haftar o per far saltare il banco e permettere, nel caso, al Parlamento di Tobruk di sopravvivere, facendo permanere la spaccatura tra Est ed Ovest. Uno scenario che non dispiace a Russia e Turchia, azionisti di riferimento dello scacchiere libico che puntano a conservare lo status quo. Così Ankara può utilizzare l’ovest come piattaforma di controllo della sponda sud del Mediterraneo, e Mosca con i mercenari di Wagner, proseguire la penetrazione verso il sud della Libia e il Sahel.

In secondo luogo, la legge crea confusione, ad esempio, nel definire i criteri di ammissione delle candidature, come nel caso del giovane Gheddafi. La norma dice che per non essere ammesso deve sussistere una condanna in via definitiva, mentre per la maggioranza dei giuristi quella di Saif non lo è. Altro aspetto che mostra la fragilità dei presupposti del voto del 24 dicembre espresso come sostenuto da alcuni Paesi europei a Parigi, a partire dall’Italia, secondo cui il voto è necessario, ma affinché sia utile e condiviso deve svolgersi in condizioni accettabili intervenendo sulla legge elettorale. E che segna la differenza rispetto a Francia ed Egitto (sponsor della Cirenaica) sostenitrici del voto a prescindere, forse spinte dalla convinzione di poter incassare il risultato che è stato mancato con la guerra.

L’intesa tra Usa e Francia
Il punto è che occorre agire subito rimettendo mano alla legge, perché i libici hanno una gran voglia di votare (per il presidente più che per il parlamento) e nel caso di un rinvio potrebbero crearsi pericolosi malumori. Occorre infine dire che i nostalgici gheddafiani hanno sia una forte intesa con l’attuale premier Abdul Hamid Dbeiba, ma sono anche, specie i duri e puri, con l’erede del Rais, e la gran parte considera Haftar un traditore. La discesa in campo pertanto non aiuta il generale e, dal momento che Dbeiba è escluso dalla corsa in base all’articolo 12 della legge elettorale, Gheddafi potrebbe vincere. Ma è bene ricordare che su di lui rimane la condanna della Corte penale internazionale, così un suo successo replicherebbe il caso sudanese di Omar al-Bashir.

Gli Stati Uniti di Joe Biden, nel frattempo, si allineano ai francesi, convinti che alla fine la democrazia trionferà e che occorra andare comunque alle urne. L’intesa tra Washington e Parigi potrebbe però essere una tattica compensatoria con cui Washington tenta di ricomporre con l’Eliseo dopo lo sgarbo dei sottomarini in Australia. Alle Nazioni Unite serpeggia invece una preoccupazione geostrategica, che nasce dalla collocazione delle vicende libiche nel mosaico continentale. In Guinea c’è stato il golpe, così come in Sudan, in Tunisia il presidente ha sospeso il Parlamento, e il Mali è sempre più destabilizzato, per non parlare delle tensioni tra Algeria e Marocco e del dilagare dell’Isis sempre più verso il basso.

Ed ora la Libia che rischia di essere ostaggio di un voto capestro che nella peggiore delle ipotesi potrebbe generare nuove divisioni istituzionali foriere di nuove tensioni militari.

Foto di copertina EPA-EFE/LIBYAN ELECTORAL COMMISSION

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