Le sfide di Pechino su crescita e disoccupazione

La Repubblica popolare cinese conclude la prima metà del 2023 con accenni di ripresa in diversi settori. Ma a mesi dall’abolizione delle misure di contenimento previste dalla strategia nazionale Zero Covid, Pechino deve ancora tener conto di una serie di sfide. Ad aprile il Consiglio di Stato ha assicurato di riuscire a promuovere un’occupazione stabile mediante provvedimenti mirati per far incontrare in modo ottimale le nuove generazioni, le aziende e anche il settore statale. Ma il tasso di disoccupazione giovanile che non accenna a diminuire si configura come uno tra i rischi maggiori per la crescita economica.

Una crescita disomogenea

La Cina cresce, ma la ripresa è discontinua. A metà giugno il Consiglio di Stato si è impegnato a mettere in atto “misure più incisive” per aumentare lo slancio dello sviluppo economico. In un comunicato rilasciato alla fine del mese a margine della riunione trimestrale del Comitato di politica monetaria della Banca centrale cinese, si legge che la politica macroeconomica ha registrato progressi “stabili e costanti”. Ma è stato anche riconosciuto che la presenza di un contesto internazionale difficile e una spinta della domanda che “è ancora insufficiente” sono fattori alla base della crescita disomogenea. Come ha dichiarato a CNBC l’economista di Caixin Insight Group Wang Zhe, “permangono problemi importanti come l’aumento della pressione deflazionistica e la debolezza della domanda estera”.

A maggio l’export cinese si è contratto del 7,5% su base annua, il primo calo in tre mesi. Le importazioni sono diminuite del 4,5%, più rapidamente di quanto previsto. La contrazione ha interessato anche il settore manifatturiero: i dati ufficiali pubblicati a fine giugno riportano che l’indice dei responsabili degli acquisti (PMI) per il mese scorso è del 49,0, rispetto al 48,8 di maggio e al 49,2 di aprile. Il valore sotto i 50 indica la diminuzione dell’attività per il terzo mese consecutivo. A giugno il PMI per il settore dei servizi pubblicato da Caixin/S&P Global (che riflette in larga misura i valori ufficiali) si è attestato al 53,9: un valore che riconferma una espansione ma che al contempo segna il ritmo di crescita più basso dallo scorso gennaio, quando Pechino ha abolito le misure previste dalla strategia Zero Covid.

Nell’ultimo trimestre il tasso di crescita delle vendite al dettaglio, un indicatore chiave dei consumi, è diminuito: se ad aprile si è registrato un +18,4% rispetto allo stesso periodo del 2022, a maggio si è scesi al +12,7%. Dal settore turistico, invece, provengono segnali incoraggianti. Nell’ultimo periodo di vacanza nazionale, quello dal 22 al 24 giugno in occasione della Festa delle barche di drago, il numero totale dei viaggi nel paese ha superato i 140 milioni (+89,1% rispetto allo scorso anno). Il boom si era già palesato durante la Festa del Lavoro, tra il 29 aprile e il 3 maggio, un periodo in cui i voli nazionali sono tornati a pieno regime pur registrando un aumento del 39% del costo se comparato con i prezzi del 2019.

Nonostante le prestazioni degli ultimi tre mesi il governo non ha rimodulato l’obiettivo di crescita del pil di “circa il 5%” fissato durante le Due sessioni. Anzi, in occasione di una conferenza a Tianjin di fine giugno, il premier Li Qiang ha affermato che la crescita da aprile a giugno è stata più rapida del +4,5% registrato nel primo trimestre del 2023. E che quindi il Paese può davvero riuscire a raggiungere l’obiettivo stabilito a marzo: un traguardo modesto, ma che segna un rialzo significativo se comparato al +3% con cui il paese ha concluso il 2022.

Disoccupazione da record

Se si guarda allo scenario occupazionale del paese ci si accorge di tendenze opposte e conviventi. La curva della disoccupazione urbana totale (dal 2018 Pechino raccoglie i dati sull’occupazione mediante sondaggi condotti nelle città) mantiene una stabile tendenza al ribasso: a maggio si è scesi al 5,2%, a fronte del 5,5% di gennaio. Anche per la fascia di età considerata fondamentale in termini di produzione del lavoro (25-59 anni) si registra un calo dello 0,1% su base mensile, scendendo al 4,1%.

Il punto debole resta la situazione per i giovani tra i 16 e i 24 anni: le stime indicano di un totale di 96 milioni di persone, su una popolazione di circa 1,4 miliardi. Di questi, circa 64 non sono coinvolti nel mercato del lavoro, in quanto studenti. Del restante 26 milioni più di 6 sono classificati come disoccupati. Dal record del 19,9% registrato a luglio 2022, il tasso è stato prima interessato da una leggera decrescita tra fine 2022 e inizio 2023 in concomitanza all’abolizione della Zero Covid, per poi tornare a salire: ad aprile ha toccato il 20,4%, a maggio ha raggiunto un nuovo massimo storico del 20,8%. I dati rilasciati nelle scorse ore rispetto al mese di giugno indicano il 21.3%.

Molti osservatori sono concordi nel dire che la percentuale continuerà a salire. I dati attuali, inoltre, malgrado siano più precisi di quelli raccolti prima del 2018, non sarebbero ancora del tutto attendibili: non verrebbero prese in esame intere categorie di persone, come i lavoratori autonomi. In questa fascia rientrano gli oltre 200 milioni di lavoratori flessibili, che ricoprono il più delle volte mansioni tramite contratti di collaborazione per le piattaforme attive nel food delivery, nel ride-hailing o nel settore tecnologico.

Le numerose analisi che hanno indagato il problema convergono su una questione: la disoccupazione giovanile è un problema che attanaglia il Partito comunista da tempo. Dopo il primo picco registrato nella seconda metà degli anni Settanta con il ritorno in città di un gran numero di giovani istruiti inviati dal Partito comunista nelle campagne per essere rieducati, la curva è salita di nuovo a cavallo del nuovo millennio, quando la riforma delle imprese statali ha provocato un’“ondata di licenziamenti”: su una forza lavoro totale urbana che contava 230 milioni, i disoccupati ammontavano quasi al 15,6%. Nel periodo immediatamente successivo il governo ha promosso la rioccupazione incoraggiando lo sviluppo dell’economia privata.

Una crisi “senza precedenti”

Come si legge in un lungo saggio di Wang Mingyuan, ricercatore dell’Istituto per la riforma e lo sviluppo di Pechino, la crisi attuale presenta caratteristiche inedite rispetto alle precedenti: intanto, i numeri più alti legati alla crescita demografica e al più alto tasso di urbanizzazione; poi, la crisi pandemica e la campagna di rettificazione che Pechino ha diretto contro le grandi aziende del settore tecnologico hanno peggiorato una situazione che già mostrava segnali preoccupanti. Il risultato è un mercato del lavoro contratto e l’emergere di una generazione che è al contempo la più istruita e la più precaria della storia della Repubblica popolare cinese.

Per fornire un quadro onnicomprensivo vanno anche menzionati gli sforzi che sin dagli anni Novanta le autorità hanno intrapreso per promuovere l’educazione professionale. Ad oggi, il paese vanta il più grande sistema di istruzione superiore al mondo, con oltre 240 milioni di cinesi che hanno frequentato l’università. Gli istituti universitari del paese hanno raggiunto piani molto alti in termini di qualità della ricerca, scavalcando perfino università come la Cambridge o la Oxford. Come risultato, i giovani che concludono percorsi universitari aumentano di anno in anno: nel 2020 erano poco meno di 9 milioni, per quest’anno le previsioni indicano oltre 11,6 milioni di persone.

D’altra parte, i posti di lavoro si sono ridotti. A gennaio 2023 il capo del ministero delle Risorse umane e della Sicurezza sociale Wang Xiaoping ha detto di aver “conquistato con fatica” i risultati raggiunto nel 2022, quando sono stati creati 12,06 milioni di nuovi impieghi. Se Pechino è riuscita a superare il target prefissato di 11 milioni, rispetto ai livelli pre-pandemia sono stati garantiti 1,48 milioni di posti di lavoro in meno. Le previsioni per il 2023 si mantengono modeste, sui 12 milioni circa.

Le prospettive per il futuro

La diffusione nelle nuove generazioni dei sentimenti di insofferenza e frustrazione è andata di pari passo con l’affievolirsi delle opportunità. La crisi di Covid-19 e l’applicazione delle ferree (e molto spesso arbitrarie) misure di contenimento non hanno fatto altro che esacerbare gli animi. Lo dimostrano il fatto che tra gli slogan urlati durante le “proteste dei fogli bianchi” abbiano figurato anche richieste di maggiore stabilità economica e prospettive più solide per il futuro.

Ad oggi il problema sembra risiedere nel fatto che mancano solide prospettive di carriera per il numero sempre crescente di giovani “altamente istruiti”. Uno studio condotto da Lu Yao, della Columbia University, e da Li Xiaogang, della Xi’an Jiaotong University, ne parla utilizzando il concetto di “sottoccupazione”: sarebbero almeno un quarto i neolaureati che accettano posizioni poco qualificate, part-time e mal pagate.

Al contempo da Pechino giungono avvertimenti sulla mancanza di lavoratori qualificati per certe mansioni a causa di “squilibri strutturali”. Serve, dicono le autorità, continuare a supportare le attività private, che secondo il quotidiano in lingua inglese China Daily sarebbero responsabili della creazione “di oltre 90% dei nuovi posti di lavoro”. Malgrado le posizioni nel settore pubblico siano sempre più attraenti per le nuove generazioni (come evidenzia il fatto che per il 2023 Pechino prevede di reclutare un numero record di oltre 37 mila dipendenti pubblici), si continua a guardare ai settori che per anni hanno trainato la crescita, come quello tech.

Negli ultimi due anni le Big Tech sono state interessate in larga misura dagli sforzi di ristrutturazione da parte degli organi di controllo del governo, che hanno causato licenziamenti massicci anche fino al 20% della forza lavoro in alcune sezioni. Uno scenario che non ha fatto altro che esasperare la generale insofferenza nei confronti di lavori da “colletto bianco” prima garanti di status e soldi, ma da tempo visti come estrema rappresentazione della cultura dell’overworking e promotori per eccellenza del burn out da troppo lavoro.

La rettifica del digitale, tuttavia, sembra ormai conclusa. Prima la multa inflitta qualche giorno fa a Tencent, casa madre della super app WeChat, e a Ant Group, ramo fintech di Alibaba, colosso dell’e-commerce fondato da Jack Ma; poi, l’endorsement pubblico da parte del premier Li Qiang, lo scorso 12 luglio, e del principale organo nazionale per la pianificazione economica: la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma cinese ha elogiato i progetti di dieci colossi tech (tra cui Alibaba, Tencent e Meituan), anche menzionando le modalità secondo cui il governo centrale può fornire loro sostegno economico.

Per dare uno slancio al mercato del lavoro “non c’è una soluzione rapida”: il commento di Luoise Loo dell’Oxford Economics al New York Times non fa intravedere previsioni certe per il futuro. Il governo ha già adottato alcune misure per rivitalizzare la crescita, come agevolazioni fiscali per le piccole imprese e la riduzione dei tassi di interesse sui depositi bancari che dovrebbero incoraggiare le famiglie a spendere di più. Ma la fiducia dei consumatori si lega a doppio filo con la mancanza di prospettive lavorative. Che “la disoccupazione è una questione sociale oltre che un fenomeno economico” lo ha detto anche il Beijing News, quotidiano di Pechino del Partito comunista cinese.

Foto di copertina EPA/MARK R. CRISTINO

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