Le implicazioni per l’industria europea della difesa

La guerra in Ucraina ha reso evidente che la base industriale e tecnologica di difesa europea non era attrezzata per affrontare le conseguenze di un conflitto su larga scala e ad alta intensità nel continente. Né lo era l’Unione europea che per fornire più di 5,6 miliardi di euro in aiuti militari all’Ucraina ha dovuto utilizzare lo European Peace Facility (EPF), un fondo fuori bilancio che ha consentito di coordinare e parzialmente rimborsare i trasferimenti da parte degli Stati membri dell’Ue. 

Le scarse scorte di mezzi e sistemi d’arma dell’Europa si sono tuttavia rivelate insufficienti a fornire le risorse necessarie per sostenere le esigenze a lungo termine dell’Ucraina. In particolare, l’uso estensivo dell’artiglieria da parte dell’Ucraina (sia proiettili da 155 mm che sistemi missilistici) ha messo a dura prova le capacità produttive europee e transatlantiche. 

Gli strumenti europei per il sostegno militare all’Ucraina

L’Ue ha così creato nuovi strumenti per garantire gli aiuti militari all’Ucraina e il rifornimento delle scorte nazionali: l’European Defence Industrial Reinforcement through Common Procurement Act (EDIRPA), progettato per supportare gli Stati membri nella creazione di meccanismi di appalto congiunto per beni della difesa; e l’Act in Support of Ammunition Production (ASAP), disegnato per sostenere finanziariamente e potenziare le capacità nella produzione di munizioni e missili. L’EDIRPA dovrebbe essere sostituito nel lungo termine da uno strumento permanente, lo European Defence Investment Programme (EDIP), che è ancora in fase di definizione.

In generale, però, una politica di rimborso europeo dei sistemi e mezzi ceduti all’Ucraina da parte dei singoli Stati membri non vincolata alla loro sostituzione con equipaggiamenti comuni, possibilmente europei, rischia di peggiorare la già eccessiva diversificazione delle capacità nazionali: a fronte di una limitata capacità produttiva europea (per altro non sempre all’avanguardia), i Paesi europei finiscono con l’acquistare quello che è oggi disponibile sul mercato internazionale, in particolare di origine americana.

I ritardi nella negoziazione dell’EDIRPA mostrano anche disaccordi tra i singoli Stati membri sull’opportunità di mantenere i mercati europei della difesa ragionevolmente aperti alle aziende di Paesi terzi, qualcosa che l’Italia (come la Germania) sostiene da tempo contro una posizione francese più protezionistica. Roma ha nel complesso adottato una posizione equilibrata, privilegiando un rapporto continuativo con le aziende statunitensi e britanniche (anche a causa dei forti legami industriali anglosassoni delle principali imprese italiane).

Resta, quindi, sullo sfondo il rischio che l’attuale fase di rapido riarmo finisca con il danneggiare i programmi di cooperazione nel campo della ricerca e sviluppo in corso, riducendo l’urgenza di farli sfociare in programmi di produzione al fine di aumentare le capacità militari europee con equipaggiamenti fortemente innovativi e comuni. Altro rischio è che le esigenze immediate assorbano troppe risorse finanziarie europee, oltre che nazionali, a discapito dello European Defence Fund (EDF) che resta l’iniziativa più importante dell’Ue.

È necessario rivedere le regole europee sul mercato della difesa

Il raggiungimento delle economie di scala richieste dalla guerra in Ucraina rende necessario anche un riesame completo delle direttive Ue sul mercato della difesa del 2009, che non affrontano adeguatamente le distorsioni della struttura del mercato europeo. Da un lato, ai sensi della Direttiva 2009/81/CE, i progetti cooperativi sono soggetti alle stesse regole di concorrenza dei prodotti nazionali o di Paesi terzi. Questa disposizione è diventata obsoleta da quando l’Ue ha deciso che la cooperazione in materia di difesa, sia negli appalti che nella ricerca e sviluppo, è una priorità di per sé (ad esempio per aumentare la capacità produttiva della base industriale e tecnologica della difesa e sviluppare una qualche forma di autonomia strategica). Questa scelta politica dovrebbe riflettersi favorendo nelle procedure di acquisizione la tecnologia sviluppata nell’ambito di progetti collaborativi dell’Ue. 

Dall’altro lato, la Direttiva 2009/43/CE non consente che i prodotti europei per la difesa diventino realmente competitivi a causa di norme eterogenee e onerose sui trasferimenti intra-Ue. Nell’attuale quadro, le capacità produttive e le catene di approvvigionamento restano frammentate lungo i confini nazionali. L’abbattimento di tali barriere dovrebbe, quindi, essere una priorità e l’Italia dovrebbe sostenere questo sforzo.

Infine, l’Ue dovrebbe prendere in considerazione disposizioni con le quali garantirebbe alle aziende di mantenere una certa quantità di capacità produttive inutilizzate in tempi di crisi. Un’azienda orientata al mercato tende probabilmente a sfruttare al massimo le proprie infrastrutture, il che significa che finirà per saturare le proprie catene di montaggio, senza lasciare spazio di manovra in caso di aumento della domanda. Essendo intrinsecamente legata all’efficientamento del mercato della difesa, è l’Ue che dovrebbe garantire la presenza di capacità produttive inutilizzate, e l’Italia dovrebbe sostenere questo sforzo.

Questo articolo anticipa un capitolo dello studio IAI che sarà presentato in una conferenza pubblica a Roma il prossimo 20 febbraio.

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