La SCO di Xi Jinping sfida l’Occidente di Trump

Xi Jinping al centro del mondo. Almeno di quella consistente parte del pianeta che sta attorno all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO). Trenta paesi dell’area Euroasiatica, con l’aggiunta anche dell’Egitto in Africa. Fondata nel 2001, anno fatale dell’attacco alle Twin Towers e dell’inizio del declino americano (che si sarebbe impantanato in due assurde guerre nel Medio Oriente), la SCO mostra oggi i suoi muscoli contro l’arroganza e la sfrontatezza di Donald Trump. Ma se nel 2001 essa contava per il 5% del Pil mondiale, oggi ne rappresenta, fra membri fondatori e partner, ben il 24,7%. Quindi Xi Jinping, l’ideatore, può fieramente celebrarne il successo raccogliendo nel porto cinese di Tianjin (13 milioni di abitanti) i leader dei paesi che a vario titolo, fra fondatori e partner, ne fanno parte.

L’obiettivo, fin dall’inizio, è stato dichiaratamente anti-occidentale e oggi a maggior ragione anti-americano. Un’alternativa ai vari G7 e G20, invenzioni euro-americane, che tendevano a dominare l’economia e la politica mondiale. Il leader cinese può in effetti oggi sottolineare che la SCO costituisce un’area di stabilità e “solidarietà” in netto contrasto con le follie tariffarie e politiche del Tycoon americano. Stabilità contro incertezza, quindi. Non male come messaggio rassicurante verso il resto del mondo.

Naturalmente, scorrendo la lista dei membri, non si può certo dire che si tratti di un gruppo estremamente omogeneo, anzi. Basti pensare che ne fanno parte Pakistan e India perennemente in guerra fra loro nella regione contesa del Kashmir: l’ultimo attacco armato è avvenuto nell’aprile di quest’anno a danno di turisti Indù. Neppure si può dire che vi siano idilliaci rapporti fra Iran e Arabia Saudita, paesi antagonisti in Medio Oriente anche per motivi religiosi, sciiti contro sunniti. Si potrebbe naturalmente continuare con altri esempi del genere.

Ma il caos geopolitico provocato da Trump sta creando effetti inaspettati anche su vecchi contrasti e conflitti in essere. Il caso più eclatante è quello dell’India che con i suoi 3000 chilometri di confini con la Cina, intorno all’area himalayana, ha vissuto decenni di scaramucce armate proprio con Pechino. Eppure oggi il premier indiano Narendra Modi è stato accolto da Xi Jinping, a sette anni dalla sua ultima visita, come un alleato di primo piano. Modi, tuttavia, ha la fama di leader filo-americano, tanto da essere membro di un’alleanza militare, il cosiddetto Quad, assieme a Giappone, Australia e Stati Uniti. Alleanza che, guarda caso, è stata creata alcuni anni fa in funzione anti-cinese. Insomma, una bella giravolta quella rappresentata dal grande abbraccio fra Modi e Xi Jinping.

Una giravolta dovuta, in realtà, alla “geniale” mossa di Trump di minacciare dazi al 50% a causa delle importazioni indiane di gas russo, aumentate in modo vertiginoso dopo l’aggressione di Mosca all’Ucraina e le conseguenti sanzioni europee su gas e petrolio russi. Proprio l’India filo-occidentale e democratica, in un contesto di autocrazie asiatiche, andava colpita? Cosa dire allora della Cina che non solo ha assorbito gran parte dell’export petrolifero russo, ma addirittura pianifica la costruzione di un grande gasdotto Mosca-Pechino per il futuro?

Nell’ottica di Trump ciò che conta è il rapporto con le “potenze imperiali” e l’India non lo è ancora: perciò un trattamento di riguardo per Xi Jinping e poca considerazione per le ragioni indiane. In termini rovesciati, lo stesso discorso si può fare per Vladimir Putin. C’è in effetti da chiedersi per quale ragione Trump abbia offerto al dittatore russo, criminale di guerra, un palco di riabilitazione internazionale come quello di Anchorage in Alaska, per non ottenerne in cambio nulla: né il cessate il fuoco sul fronte ucraino (anzi, si è assistito a un peggioramento degli attacchi armati) né tanto meno l’avvio di un processo di pace. Ma Putin rientra nei disegni di dialogo con le grandi potenze immaginato da Trump. Un ritorno alla politica di potenza e dell’equilibrio fra di loro, come ai tempi di Metternich. Insomma, gli amici e gli alleati tradizionali contano molto meno dei nemici, cui vanno dirette le maggiori attenzioni di Washington.

Eppure Vladimir Putin, anche se accolto con calore e rispetto alla riunione della SCO, sta subendo i vincoli di un cordone ombelicale con la Cina che lo renderà sempre più dipendente dal volere politico di Xi Jinping. In effetti, nel progetto di cooperazione a tre che sembra emergere dal vertice di Tianjin, la Cina offrirebbe il suo potere industriale, l’India la capacità nei servizi tecnologici e la Russia le sole materie prime. Una posizione ancillare che Putin è costretto a subire, ma che Trump non riesce neppure a intuire né a sfruttare adeguatamente per mettere la Russia nell’angolo e obbligarla alla pace. Ma forse a Trump la pace in Ucraina non interessa più e ciò che succede a Tianjin non gli importa molto. Ma per noi europei questi eventi e queste posizioni dovrebbero invece suonare come un ulteriore campanello d’allarme sull’urgenza di prenderci le nostre responsabilità collettive e di farlo in modo autonomo. Cercasi Europa disperatamente.

Esperto di questioni europee e di politica estera, è Presidente del Comitato dei Garanti e Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali. È pubblicista e editorialista per Vita trentina (dal 2019) e Corriere del Trentino – Gruppo Cds (dal 2020).

Ultime pubblicazioni