Che direzione sta prendendo la politica estera USA dopo la presidenza Trump? Qual è l’impatto della Belt and Road Initiative cinese fuori dall’Europa? Che prospettive ci sono per la Grecia dopo gli anni dei bailout e in una fase di transizione energetica? Sono alcune delle domande al centro degli articoli del nuovo fascicolo di The International Spectator, la rivista referata in lingua inglese dello IAI.
La politica estera USA dopo Trump
Fino alla Presidenza Trump, uno dei tratti distintivi della politica estera statunitense del secondo dopoguerra era stato il ricorso a una retorica “eccezionalista”: tanto i presidenti repubblicani quanto quelli democratici, sia pur con sfumature diverse, avevano rilanciato l’idea che gli Usa fossero un paese con caratteristiche del tutto uniche, tali da rendere gli Stati Uniti un vero e proprio faro della democrazia a livello globale.
Se l’approccio esplicitamente nazionalista di Trump aveva segnato una rottura con questo genere di retorica, la presidenza Biden sembra aver rilanciato l’idea dell’eccezionalismo statunitense come modello etico.
Ma come è possibile articolare una visione di questo tipo senza cadere in tentazioni egemoniche o interventiste? Secondo Holger Janusch, è necessario ripensare all’eccezionalismo non come a un dato di fatto, ma come a un obiettivo a cui la politica estera americana dovrebbe tendere, esercitando una costante autocritica.
La necessità di ripensare criticamente alcuni assunti di fondo della politica estera americana è al centro anche del contributo di Meriel Hahn e Peter Harris sulle prospettive di denuclearizzazione della Corea del Nord. Secondo Hahn e Harris, la presidenza Trump ha messo in luce come qualsiasi tentativo di negoziare direttamente con Pyongyang debba fare i conti con dei vincoli sempre più stringenti.
Per la leadership nordcoreana, l’aver raggiunto lo status di potenza nucleare ha accresciuto notevolmente il proprio potere negoziale; di conseguenza, il costo di un eventuale accordo con Pyongyang è divenuto talmente alto da essere politicamente insostenibile per qualsiasi leader statunitense. Secondo gli autori, ciò non significa che una pace sulla penisola coreana sia irraggiungibile, bensì che solo un maggiore coinvolgimento degli attori regionali – dalla Corea del Sud alla Cina – potrebbe contribuire a individuare una strada realisticamente percorribile.
Uno sguardo al Consiglio di Sicurezza
A una delle principali aree di crisi a livello internazionale nell’ultimo decennio, la Siria, è dedicato invece l’articolo di Alice Martini. Lo studio si concentra più specificamente sul dibattito sviluppatosi nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, evidenziando come tutti i principali attori coinvolti – Stati Uniti, Regno Unito e Francia da una parte, Russia, Cina e Siria dall’altra – abbiano fatto ricorso alla retorica della “guerra al terrore” per legittimare le proprie posizioni. Così, mentre i paesi occidentali accusavano Assad di promuovere un vero e proprio terrorismo di stato e di aver indirettamente favorito l’ascesa dello Stato islamico, Assad e i suoi alleati cercavano di presentarsi come i legittimi protettori dell’ordine nel paese a fronte della minaccia terroristica fomentata da paesi stranieri.
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è oggetto anche della ricerca di Vahid Nick Pay e Przemysław Postolski. Il focus, in questo caso, è rivolto al ruolo dei dieci membri non permanenti del Consiglio, eletti con un mandato biennale dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ad affiancare i cinque membri permanenti dotati di diritto di veto.
Se tradizionalmente l’influenza dei membri non permanenti è stata considerata marginale, l’analisi dei casi della Polonia (2018-2019) e del Sudafrica (2019-2020) evidenzia invece come i membri eletti possano svolgere un ruolo attivo, sia proponendosi come mediatori tra le grandi potenze, sia portando avanti iniziative proprie. L’approvazione della risoluzione 2493, parte dell’agenda Women, Peace and Security, per impulso del Sudafrica, e quella della risoluzione 2475 sulla protezione delle persone con disabilità nei conflitti armati promossa dalla Polonia sono la dimostrazione dell’agency dei membri non eletti nel Consiglio di sicurezza.
Che cosa fa la Cina
L’influenza di una grande potenza come la Cina fuori dall’Europa è invece oggetto degli articoli di Amjed Rasheed e Paolo Pizzolo e Andrea Carteny.
Rasheed analizza il modo in cui le narrazioni promosse dallo stato egiziano riguardo al modello politico e di sviluppo cinese contribuiscono a legittimare l’autoritarismo nel paese. Sui media di stato egiziani, la Cina viene presentata come un paese alleato che condivide con l’Egitto il fatto di avere alle spalle una storia e una civiltà plurimillenarie. L’ascesa di Pechino a livello mondiale rappresenterebbe l’occasione per porre fine a un ordine globale iniquo, a beneficio anche della sovranità e dell’indipendenza egiziana. I successi del modello cinese non solo sul piano economico, ma anche nella lotta al terrorismo e nel contenimento della pandemia da Covid, rappresenterebbero un esempio da seguire e legittimerebbero la leadership autoritaria di El-Sisi.
Nel caso dei paesi dell’Asia centrale, l’influenza crescente di Pechino, soprattutto sul piano economico, sta invece ponendo la Russia di fronte a un dilemma. Negli ultimi due decenni, infatti, Mosca e Pechino hanno formato un vero e proprio “asse di convenienza” in Asia centrale, partendo dal comune interesse a contenere l’influenza occidentale (specie statunitense) nella regione. Con il lancio della Belt and Road Initiative (non a caso inaugurata da Xi Jinping nel 2013 proprio durante una visita in Kazakhistan), tuttavia, l’influenza cinese è diventata progressivamente preponderante a livello economico e commerciale, mentre Mosca ha conservato una posizione preminente sul piano strategico-militare. Secondo Pizzolo e Carteny, gli scenari possibili per il futuro sono fondamentalmente due: una coesistenza dell’influenza cinese e russa fondata su una “divisione del lavoro” (rispettivamente in ambito economico e di sicurezza); o una graduale ascesa della Cina a livello regionale anche sul piano militare.
La Grecia tra bailout e transizione energetica
Infine, una sezione della rivista si concentra sugli sviluppi più recenti della politica estera greca. Attraverso un’innovativa analisi delle posizioni di alcuni politici e opinion leader greci di primo piano, Vasileios P. Karakasis traccia un bilancio del bailout agreement sottoscritto dal governo Tsipras nel 2015. Le interpretazioni che ne vengono date sono fondamentalmente due: secondo alcuni, il bailout sarebbe stato l’esito di una strategia negoziale fallimentare da parte del governo, condizionata in negativo da toni eccessivamente ideologici; per altri, il bailout non dimostrerebbe altro se non la preminenza inscalfibile della Germania all’interno dell’Eurogruppo.
Filippos Proedrou si concentra invece sulle politiche relative alla transizione energetica. Nei decenni passati, la transizione energetica è stata declinata come una questione di carattere ambientale ed economico, non come un tema di importanza vitale per gli interessi e la sicurezza nazionale. Coerentemente con questo approccio, a predominare sono state logiche di politica economica, soprattutto di matrice neoliberista.
Nell’ultimo decennio, tuttavia, la rilevanza della questione energetica sul piano geopolitico è diventata sempre più evidente; in questa prospettiva, la transizione energetica potrebbe rappresentare un fattore di svolta, consentendo una produzione diffusa che metterebbe in discussione le posizioni di forza delle grandi potenze produttrici di petrolio e di gas. Per un paese come la Grecia, accelerare la transizione diventa quindi una questione di sicurezza nazionale, non solo perché consentirebbe di ridurre la dipendenza dalle fonti fossili russe, ma anche perché mitigherebbe una serie di instabilità e rischi supplementari determinati dal cambiamento climatico.
The International Spectator è la rivista scientifica peer-reviewed in lingua inglese dello IAI curata da Daniela Huber e Leo Goretti.
Foto di copertina EPA/MICHAEL REYNOLDS