La guerra e una nuova politica industriale

La priorità assegnata dai governi alla difesa e alla sicurezza è ormai un elemento irreversibile. Il mondo si va riorganizzando in sfere d’influenza e il vantaggio competitivo degli Stati non si misura più solo sulla capacità di attrazione economica. Raggiunto l’accordo di massima tra i membri della NATO per una crescita degli investimenti in difesa fino al 3,5% del PIL nei prossimi anni, con un successivo scatto fino al 5%, si tratta adesso di allocare queste risorse nella maniera più utile e sensata. Ed è in questa accezione che lo sforzo previsto non va letto solo in un’ottica militare.

Difesa come motore di innovazione tecnologica e ricadute civili

Che gli investimenti in difesa creino ricadute importanti su settori diversi è un dato noto da tempo. L’esempio più eclatante è lo sdoganamento a fini civili della rete internet, sviluppata originariamente per scopi di comunicazione militare. Il DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) negli Stati Uniti è da sempre il laboratorio più avanzato di ricerca in ambito militare, che ha generato benefici enormi a livello globale, ad esempio sulle nanotecnologie e sui microchip. Non si contano poi le applicazioni civili o cosiddette “duali” che derivano dalla ricerca spaziale. Insomma, ogni singolo euro investito in difesa genera tipicamente ricadute più che proporzionali sull’economia e sulle applicazioni civili, oltre a determinare il rafforzamento della tutela di un bene irrinunciabile, come la sicurezza e la protezione degli Stati.

Nuovi scenari economici: tra riconversione e sfide strutturali

In questa fase storica, però, c’è molto di più. C’è la necessità di convertire e adattare interi pezzi di economia a un mondo che è radicalmente cambiato. Non si tratta di assecondare quella che in modo superficiale è stata definita “economia di guerra”, i cui esiti, peraltro, sono ampiamente incerti. Lo ha fatto di recente la Russia, che ha di fatto mobilitato una buona parte della base industriale e produttiva per la costruzione e la fornitura di mezzi e sistemi militari per la campagna in Ucraina. Oggi possiamo affermare che quella russa è un’economia di guerra a tutti gli effetti, e che la sua parziale o totale retrocessione a produzioni convenzionali non sarà né facile né scontata. Un dato che deve, da solo, allarmare rispetto ai pericoli futuri della minaccia russa all’Europa e all’ordine internazionale. Oggi, mediamente, un soldato di Mosca al fronte viene pagato tre volte di più di un manager di una grande impresa, dieci volte di più di un operaio specializzato. Con tutte le conseguenze immaginabili in termini di potere d’acquisto e di tenuta sociale nel lungo periodo.

Crisi del modello tedesco e nuove pressioni competitive

La verità è che il ritorno della guerra ha fatto crollare i vecchi schemi economici e produttivi. Si pensi al successo del modello tedesco, che abbiamo ammirato e provato a imitare per molti anni. È un modello che è stato basato su tre fattori: alta produttività, alti salari, costi di produzione, in particolare dell’energia, molto bassi. Oggi, l’ipotesi di un ritorno a prezzi economici di gas e petrolio è remota se non irrealistica. I salari non possono crescere più di tanto, a causa dell’inflazione. E, di conseguenza, la produttività ne risente pesantemente. Il risultato è che il Prodotto Interno Lordo della Germania è ormai fermo da tempo.

La competizione internazionale, poi, si è fatta al contempo più accesa. Ormai gli stessi amministratori delegati delle storiche case automobilistiche tedesche riconoscono che le migliori soluzioni, le tecnologie più innovative a un costo accessibile arrivano dalla Cina. L’industria automobilistica tedesca e, più in generale, la manifattura, sono messe in forte discussione da nuovi protezionismi, dazi e tariffe commerciali, catene produttive diventate nei decenni troppo lunghe.

Difesa come leva di politica industriale e stimolo economico

Quando il Cancelliere tedesco Merz ha illustrato il suo piano da mille miliardi di euro di nuovi investimenti in difesa su un arco temporale di dieci anni, lo ha fatto pensando anche alla necessità di scongiurare il pericolo della desertificazione industriale, oltre a quello dei carri armati russi alle porte d’Europa. Interi pezzi della vecchia manifattura pesante verranno progressivamente riconvertiti per servire l’industria nazionale dell’aerospazio e della difesa. Si tratta di un’iniziativa che ha aspetti keynesiani, di stimolo pubblico alla crescita e agli investimenti. Inevitabilmente sarà così per tutti i Paesi che nei prossimi anni, in virtù dell’impegno assunto e dell’instabilità crescente, dovranno garantire maggiori spese militari. Settori industriali compatibili e oggi compromessi dal terremoto geoeconomico in corso dovranno orientarsi verso nuove produzioni.

Questo vuol dire fare politica industriale. C’è una profonda differenza, infatti, tra economie di guerra e politiche industriali in grado di rafforzare la base competitiva con investimenti pubblici e privati, in un settore diventato ormai irrinunciabile come la difesa. Questo tipo di politiche può servire diversi scopi e avere ricadute ampie, oltre a quella ormai esistenziale di garantire protezione e sicurezza per i territori degli Stati e dei loro cittadini.

Head o Public Affairs & Sustainability in Novartis Italia. È docente di Geopolitica, Strategia e Public Affairs presso l’Università di Roma - Tor Vergata, Campus Biomedico di Roma, Luiss - Guido Carli. In passato ha svolto incarichi istituzionali presso la presidenza del Consiglio dei ministri, il Copasir, la Presidenza della Repubblica.

Ultime pubblicazioni