La fine di Boris Johnson

Come da copione la fine del governo Johnson è stata flamboyant, in linea con il personaggio. Forte di una maggioranza parlamentare di 80 seggi, alcuni dei quali strappati, nel dicembre 2019, al cosiddetto ‘red wall’, in meno di 24 ore Boris Johnson ha visto il suo governo disintegrarsi a causa delle dimissioni in massa di più di 50 tra ministri e sottosegretari. L’elemento scatenante sono state le dimissioni sincronizzate di due pesi massimi, il cancelliere dello scacchiere Rishi Sunak, e il ministro della sanità Sajid Javid, a cui Johnson ha cercato di porre rimedio nominando cancelliere Nadhim Zahawi – in seguito dimissionario.

Leader conservatori a confronto

Che Boris Johnson fosse in crisi e rischiasse la sfiducia era chiaro da tempo. Troppi scandali personali, un uso disinvolto delle risorse pubbliche per scopi privati, voltafaccia e menzogne, hanno eroso la popolarità di un primo ministro molto carismatico – soprattutto se confrontato con i suoi predecessori. A differenza di David Cameron, dimissionario dopo la sconfitta al referendum sulla Brexit, Johnson era riuscito ad oscurare la sua estrazione sociale elitaria – Eton e Oxford – trasformandosi nel campione del populismo nazionalista e anti-UE.

Il confronto con Theresa May, che Johnson scalzò proprio sui negoziati della Brexit è ancor più impietoso: tanto impacciata e grigia la prima, quanto disinvolto e imprevedibile il secondo. Per i detrattori Johnson è un buffone senza alcuna dirittura morale. Per i sostenitori è uno statista eccentrico alla Churchill – di cui è biografo e ammiratore – in grado di ridare dinamismo al paese, sganciandolo dalla camicia di forza di regole imposte dalla Ue e trasformandolo in un attore economico globale.

Le conseguenze di Brexit

Non solo la Brexit non ha portato i benefici promessi, ma finora si è tradotta in una contrazione degli scambi commerciali del Regno Unito che si sono ridotti del 6,2% nel periodo 2017-2021 mentre sono aumentati nelle principali economie europee. Allo stesso modo si sono ridotti i flussi di investimenti esteri diretti nel paese – poco meno del 2% del PIL nel 2017-2021, il livello più basso degli ultimi quarant’anni.

A questo si aggiunge un quadro internazionale che si è fatto più complesso dove pressioni sul lato dei prezzi si intrecciano con il rallentamento della domanda. Purtroppo per Johnson i dati relativi all’economia del Regno Unito sono impietosi. Secondo le stime dell’Ocse nel 2023 l’economia inglese crescerà meno di tutte le altre economie del G20 con l’eccezione della Russia. Questo a fronte di un’inflazione che rimarrà alta, intorno al 7,4% (attualmente il tasso di inflazione è al 9,1%). Gli aumenti dei prezzi dei prodotti energetici e le strozzature sul lato dell’offerta dovute alle nuove varianti di Covid-19 hanno fortemente contribuito all’inflazione. Inoltre la carenza di personale in molti settori – soprattutto nei servizi – a seguito delle limitazioni imposte dalla Brexit sull’immigrazione ha avuto un ulteriore impatto sui prezzi.

Lo scontro sulle tasse 

Nei prossimi giorni verranno presentate le candidature per la leadership del partito conservatore. La lista verrà presentata per la votazione ai deputati conservatori. I due candidati più votati saranno poi sottoposti ai membri del partito. Il vincitore diventerà leader e primo ministro. Questo processo si concluderà ai primi di settembre. Nel frattempo Johnson rimarrà in carica come facente funzioni.

Lo scontro sulla leadership sarà soprattutto sulle politiche fiscali e di bilancio. Occorre ridurre la spesa pubblica e aumentare le tasse per contenere il debito alla luce del rallentamento della crescita economica, come sostiene l’ex cancelliere e candidato Sunak? Oppure occorre non aumentare le tasse e addirittura puntare a ridurle, come ribatte il cancelliere per 24 ore e candidato leader Zahawi? In sostanza lo scontro è tra due approcci economici che coesistono all’interno del partito, tra ultra-liberisti che vogliono poco stato e tasse minime, e tra conservatori thatcheriani per i quali è importante mantenere prudenza fiscale e limitare l’indebitamento. Starà ai candidati persuadere gli elettori quali dei due approcci dovrà guidare la politica economica del governo fino alla scadenza nel mandato nel 2024.

Il futuro dei Tory

Ma i candidati dovranno anche essere in grado di portare voti e quindi essere credibili nelle prossime elezioni – è proprio la capacità di vincere nei seggi marginali una caratteristica irrinunciabile nei leader politici nel Regno Unito. Sia Sunak che Zahawi, potrebbero trovarsi in difficoltà a causa della condotta dei loro affari fiscali. Nel caso di Sunak è già emerso che la moglie è fiscalmente non residente nel paese, suscitando molto clamore. Per quanto riguarda Zahawi, rimangono molti interrogativi sulla condotta dei suoi affari prima dell’ingresso in politica. Finora nove candidati hanno presentato la propria candidature. È probabile che un paio si ritireranno prima di passare al vaglio dei parlamentari conservatori. In ogni caso, il partito rimane fondamentalmente diviso e questo nuovo cambiamento al vertice, tre anni dopo la sconfitta di Theresa May, non depone a favore della stabilità politica.

Foto di copertina EPA/TOLGA AKMEN

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